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Ancora per quest’anno

III Domenica di Quaresima

Es 3,1-8.13-15; Sal 103 (102); 1Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9

Gesù rimprovera la propria generazione; essa sa distinguere i segni meteorologici che preannunciano l’arrivo della pioggia o del caldo, ma è incapace di valutare «questo tempo (kairos)» (Lc 12,54-56). Il «tempo opportuno» a cui allude Gesù è quello nel corso del quale occorre produrre buoni frutti.

Alcuni riferiscono a Gesù una notizia (cf. Lc 13,1). È simile a quelle che ascoltiamo anche oggi: un luogo di culto diviene sede di una strage, un manufatto crolla e provoca molte vittime. Sono questi accadimenti a essere segni dei tempi? Il fatto che capitino da sempre tende a escluderlo. La reiterazione storica è implacabile. A escludere l’ipotesi che il sangue dei Galilei o il crollo della torre di Siloe siano segni è quanto detto da Gesù stesso. Secondo le sue parole quegli eventi rientrano nella pura sfera dell’accadere.

Il segno sta non nel fatto che avvengano disgrazie, bensì nel modo in cui si risponde a esse. Pur ignorando la ragione per cui i fatti tragici coinvolgono alcune persone e non altre, occorre assumerli come ammonimenti. Non si può negare che, così facendo, si corra il rischio di strumentalizzare a fin di bene l’accaduto. Nel Vangelo non una parola è detta rispetto alle vittime che paiono rientrare nell’ambito di un semplice fatto di cronaca. Può apparire un procedere troppo crudo, tuttavia è proprio questo che da un lato rescinde ogni nesso tra sventura e colpevolezza, mentre dall’altro si trasforma in una pressante sollecitazione a cambiar vita.

Dapprima si indica la dimensione di un accadere slegato da ogni precisa responsabilità individuale o collettiva, in seguito si chiama alla conversione assumendo il linguaggio della minaccia: «Quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Siloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,4-5). Da una parte si confuta l’esistenza di un presunto nesso di causa ed effetto il quale viene però, almeno potenzialmente, riproposto dall’altra. Si è di fronte a una specie di contraddizione. Da essa si esce soltanto se si afferma che le vittime non sono responsabili per quanto è loro avvenuto, mentre gli scampati (vale a dire tutti gli altri) lo sono nei confronti di quanto può capitare in avvenire.

La parabola del fico tiene aperto lo spazio del possibile. All’inizio del Vangelo era risuonata la parola di Giovanni Battista; essa proclamava un giudizio imminente e additava la presenza di una lama pronta a colpire: «Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco» (Lc 3,9). Ora il vignaiolo, da sempre inteso come figura di Gesù, chiede invece una dilazione.

La conclusione della parabola resta sospesa su due fronti: non si conosce la risposta del padrone e, nel caso in cui quest’ultima fosse positiva, si ignora se l’albero, grazie alle cure da esso ricevute, sia tornato a essere fruttifero. Tutto induce a ritenere che la prima eventualità abbia avuto un riscontro positivo, a far propendere in questa direzione è la cura stessa della pianta promessa dal vignaiolo: chi non gli darebbe credito?

La seconda alternativa resta invece più aperta. Non sappiamo come il fico reagirà alle premure a lui riservate. Ignoriamo se la zappa e il concime siano stati stimoli sufficienti. Non è comunque escluso che continui a essere sterile e allora il suo destino sarà segnato, c’è a disposizione un solo anno: «Vedremo se porterà frutti per l’avvenire: se no lo taglierai» (Lc 13,9). L’insegnamento sta qui.

Il fatto che non ci sia alcun legame di causa ed effetto tra colpe e disgrazie, non solo non esclude l’appello alla responsabilità personale, ma addirittura comporta che venga posto in primo piano. L’atto di zappare e concimare aiuta ma non garantisce. La risposta la deve dare in prima persona il fico. Non ci è concesso di evitare che capitino disgrazie; con tutto ciò, ci è richiesto di produrre comunque frutti; è certo che, se non lo facciamo, ce ne sarà chiesto conto.

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