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Che cosa dobbiamo fare?

III domenica di Avvento

Sof 3,14-17; Is 12,2-6; Fil 4,4-7; Lc 3,10-18

Il Vangelo della III domenica di Avvento inizia con un interrogativo: «Che cosa dobbiamo fare?». È un tipo di domanda che di solito sorge in una situazione specifica, nella quale si è nell’incertezza di quale sia la strada più conveniente da seguire; in tali circostanze ci si rivolge a chi è dotato di autorità o di competenza. È quanto avviene, per esempio, allorché un malato chiede al medico quale comportamento debba assumere perché la terapia risulti efficace.

Qual è il contesto nel quale scaturisce la domanda delle folle? Lo si scopre se si leggono i versetti immediatamente precedenti, impropriamente omessi dalla liturgia odierna. In essi si afferma che la gente andava a farsi battezzare da Giovanni. Perché lo faceva? Stando al passo lucano sembra che l’intenzione dei più fosse quella di mettersi al riparo facendo affidamento sul proprio status e compiendo un determinato rito religioso.

Per questo motivo Giovanni rivolge ai battezzandi parole molto dure, etichettandoli come «razza di vipere» e smascherando la falsa fiducia nella loro appartenenza privilegiata: «E non cominciate a dire fra voi «Abbiamo Abramo per padre!». Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo» (Lc 3,7-8). La denuncia di Giovanni viene giustificata nella prospettiva di un giudizio imminente: «Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco» (Lc 3,9).

La domanda della folla è trascrivibile in questi termini: se l’atto di farsi battezzare e l’appartenenza alla stirpe di Abramo non bastano, che cosa dobbiamo fare? Quali sono i «frutti degni della conversione» (Lc 3,8)? Le domande trovano risposta in Giovanni. Lo fanno in un contesto in cui resta ben salda la prospettiva di un giudizio incombente. Chi viene dopo il Battista «tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la pula con fuoco inestinguibile» (Lc 3,17).

Nella risposta di Giovanni si legge un marcato senso di sospensione e di attesa. Egli non chiede nulla di radicale. A differenza di quanto sarebbe avvenuto per i discepoli di Gesù non c’è nessuna chiamata a uscire dalla propria condizione, non c’è nessun invito a rinnegare sé stessi (cf. Lc 9,23; 14,26-27; 17,33). Persino ai pubblicani e ai soldati è domandato solo di attenersi ai «doveri del proprio stato» (Lc 3,12-14). Entrambe le categorie facevano mestieri che implicavano una collaborazione con il potere romano, giudicato dalla maggioranza della popolazione come prova della necessità dell’avvento della liberazione messianica. Le parole di Giovanni non negano questa prospettiva, sostengono solo che l’imminente giudizio sugli empi non sarà compiuto da lui (cf. Lc 3,16-17). In quell’attesa ognuno resti nelle condizioni in cui si trova (cf. 1Cor 7,17).

Proprio questo quadro normale diviene un giudizio indiretto su di noi. Giovanni infatti non giudica eccezionale compiere una «beneficenza» che la maggior parte di noi valuterebbe come una straordinaria messa in pratica della vocazione evangelica: «Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto» (Lc 3,11). Questi atti sono richiesti da una forma di evangelizzazione precedente a quella di Gesù (cf. Lc 3,18). Sono comportamenti che si inscrivono semplicemente nella dimensione dell’attesa di un giudizio orientata o verso la salvezza o verso la condanna.

Colui che era annunciato verrà, ma nella sua mano non ci sarà alcuna pala, nessuna paglia sarà bruciata, nessuna scure colpirà le radici dell’albero. Al contrario Luca nel suo Vangelo prospetterà una misericordiosa dilazione del giudizio. C’è ancora tempo per convertirci. Il vignaiolo ottiene dal padrone che al fico improduttivo sia concessa un’ulteriore possibilità (cf. Lc 13,6-9). Ciò vale anche per noi. Che cosa dobbiamo fare? Convertirci.

 

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