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Da Nazaret a Cafarnao

 

IV domenica del tempo ordinario

Ger 1,4-5.17-19; Sal 71 (70); 1Cor 12,31-13,13; Lc 4,21-30

 

Il IV capitolo del Vangelo di Luca è contraddistinto dalla presenza di due note contrastanti. La prima è la lunga «nota tenuta», costituita dal riferimento al settimo giorno. Di sabato Gesù entra nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,16), insegna a Cafarnao (cf. 4,31), scaccia il demonio con la sola forza della parola (cf. Lc 4,31) senza infrangere il precetto sabbatico (attende la fine del settimo giorno per guarire i malati imponendo loro le mani, Lc 4,40). L’altra nota è la presenza di un ripetuto contrasto. Il riposo tranquillo e sicuro del sabato (cf. Gen 2,3; Es 20,8-11; Dt 5,12-15) deve fare i conti con una realtà di segno opposto: l’ostilità dei propri concittadini a Nazaret (cf. Lc 4,23-30), la potenza del demonio a Cafarnao (cf. Lc 4,33-35), la forza della malattia in casa di Simone (cf. Lc 4,38-39).

A Nazaret la svolta narrativa è repentina e all’apparenza persino immotivata. Gesù sembra comportarsi come una specie di «maestro del sospetto»; pare infatti svelare quanto era celato sotto uno stupore ammirato e innocente: «Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati (verbo thaumazein) delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: “Non è costui il figlio di Giuseppe?”» (Lc 4,22). La replica di Gesù suona troppo dura: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico cura te stesso” (...) In verità io vi dico: nessun profeta è ben accetto nella sua patria» (Lc 4,23-24). Una delle ragioni di questo brusco salto di tono è imputabile all’operazione di smussare gli spigoli propria di Luca. Il terzo Vangelo presenta infatti come testimoniale una meraviglia espressa da Marco in tono più ruvido: «“Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno tutte qui da noi?”. Ed era per loro motivo di scandalo» (Mc 6,3).

Luca ricorre al più consueto patronimico («figlio di Giuseppe») in luogo di un più inquietante matronimico («figlio di Maria») e sopprime ogni riferimento ai fratelli e alle sorelle. Inoltre egli propone la scena della sinagoga di Nazaret come atto iniziale della missione di Gesù; perciò, a differenza di Marco e Matteo, non è nelle condizioni di descrivere i prodigi compiuti in precedenza a Cafarnao e in altre zone della Galilea.

Il «nemo propheta in patria» in Luca diviene quindi improvviso e quasi ingiustificato. Per rendere ragione di questo passaggio repentino sono chiamati in causa antichi esempi nei quali Elia soccorre la vedova di Sarepta ed Eliseo guarisce Naman il siro senza che i due profeti facessero nulla in favore delle vedove e dei lebbrosi di Israele (cf. Lc 4,25-27; cf. 1Re 17,1-6; 2Re 5,1-14).

In realtà in Luca il rapporto con l’«altro» sembra risolversi tutto nello spostamento minimale che da Nazaret conduce a Cafarnao (cf. Lc 4,23). Il perimetro resta circoscritto alla Galilea. Tuttavia più tardi a Cafarnao le parti, in un certo senso, si capovolgeranno, a meravigliarsi infatti sarà Gesù.

Lo farà non a motivo dell’incredulità dei propri compaesani («e si meravigliava della loro incredulità», Mc 6,9), ma a causa della fede di uno straniero. Si tratta del centurione, che chiede la guarigione del suo servo in pericolo di vita. Il soldato romano manifesta la fede che Gesù possa guarire con la parola anche stando fisicamente a distanza: «All’udire questo, Gesù si meravigliò (verbo, thaumazein) di lui e, volgendosi alla folla che lo seguiva, disse: “Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande”» (Lc 7,9).

Come avvenne con Naman ed Eliseo, anche a Cafarnao fu la fede di uno straniero a interpellare un figlio di Israele e a suscitare in lui meraviglia. Fatte tutte le debite, rilevanti differenze, la fede dell’«altro» interpella ancora il nostro oggi.

 

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