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Domenica V di Pasqua | La via della verità e della vita

At 6,1-7; Sal 32 (33); 1Pt 2,4-9; Gv 14,1-12

       Nel quarto Vangelo il Figlio si presenta, nel suo operare, come rivelatore del Padre. Lo fa nel suo essere passaggio pasquale, via. In Giovanni molti momenti di rivelazione sono scanditi dal ripetersi dell’espressione «io sono»; locuzione che, lungo una catena di passi biblici (cf. ad esempio Is 43,10; 48,12; Dt 32,39), si annoda a una delle più fondamentali rivelazioni di Dio, quella del roveto ardente: «Sono colui che sono» (Es 3,14), espressione misteriosa ma che, nel suo immediato collegarsi ai padri («Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe mi ha inviato a voi», Es 3,15), testimonia una prossimità di Dio che si prolunga in una promessa rivolta a Mosè: «Sarò con te» (Es 3,12).

       Una vicinanza che non esaurisce in se stessa il mistero. Quando rivela il suo nome il Signore dichiara: «Questo è il mio nome per sempre» (Es 3,15). Gli antichi rabbi (cf. Talmud babilonese Qiddushin, 71a), attraverso un lieve cambio di vocali, trasformano l’espressione «per sempre (le ‛olam)» in quest’altra: «Questo è il mio nome per celarsi (leallem)». Il Dio che si manifesta nella pasqua (passaggio) e nell’esodo dall’Egitto è anche il Dio che si cela (cf. Is 45,15). Rivelarsi e nascondersi sono entrambi momenti costitutivi di un’unica via. Il nome, luogo della manifestazione, è anche quello del nascondimento nell’impronunciabilità del Tetragramma (YHWH).

       Anche in Gesù Dio si rivela e si cela. Solo perché «nessuno ha mai visto Dio» (1Gv 4,12), il Figlio diviene il luogo della manifestazione del Padre: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). Il Figlio e non il Padre è diventato visibile. Chi vede il Figlio vede il volto di Dio girato verso il mondo, vede il Deus pro nobis. Il Padre dimora nel Figlio e in lui compie le sue opere (cf. Gv 14,11); e il Figlio, per manifestare le opere del Padre, ricorre a una serie di espressioni caratterizzate dalla locuzione «io sono»: «Io sono il pane disceso dal cielo» (Gv 6,38), «Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12), «Io sono la porta» (Gv 10,9), «Io sono il buon pastore» (Gv 10,11.14), «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Io sono il luogo in cui, attraverso la vicenda pasquale, passaggio e nel contempo compimento dell’opera del Padre (Gv 19,30), Dio vuole di nuovo rivelarsi agli uomini. L’«io sono» di Gesù è peculiare a chi, attraverso l’obbedienza e le opere, rivela il Padre da cui non si separa percorrendo una via che giunge fino alla croce e, solo attraverso di essa, alla vita (cf. Gv 12,24): «Quando innalzerete il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che io sono» (Gv 8,28; cf. Gv 8,24.53).

       L’«Io sono» pronunciato dal Figlio non è una definizione. L’espressione è rivolta ad attestare la presenza di una comunicazione e di una relazione. In questo senso si comprende perché il Figlio è nel contempo verità e via. Se la via fosse solo un modo per raggiungere una meta, essa sarebbe un puro mezzo che una volta raggiunto il punto di arrivo avrebbe esaurito il proprio compito. Di contro, per il quarto Vangelo Gesù è verità proprio perché è via; in ciò si trova la vita, una realtà impensabile in forma statica. Questo movimento comporta che le relazioni con Dio e il prossimo costituiscano le manifestazioni più proprie di una forma di verità che non è dottrina, ma appunto via e vita. Come avvenne al roveto e nel cenacolo, anche per noi la verità sta nell’incontro che si dispiega sulla via della vita.

 

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