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È bene se crea comunione

Moralia | Una collaborazione dell'Associazione teologica italiana per lo studio della morale (ATISM) con Il Regno

Un’espressione usurpata in modo lento, progressivo ma ricorrente. Tutti i politici che aspirano a intercettare il cosiddetto voto dei cattolici se ne riempiono la bocca, talvolta in modo improprio e riduttivo. Ma che cos’è il bene comune? Potremo diligentemente affermare che è uno dei principi cardine della dottrina sociale della Chiesa. Nulla di più vero, ma cosa significa oggi per noi?

Non confondiamolo con il benessere

«Il bene comune è l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente». Così la Gaudium et spes del 1965 (n. 26). Nell’immediato dopo guerra, Jacques Maritain definiva il bene comune come «la buona vita umana della moltitudine, di una moltitudine di persone; è la loro comunione nel vivere bene; è dunque comune al tutto e alle parti» (La persona e il bene comune, p. 31).

Che si tratti di «perfezione» o di «vivere bene», il bene comune non coincide con il benessere. Al rischio di questa errata sovrapposizione siamo più che mai esposti oggi. Nel suo viaggio in Bolivia del luglio 2015, papa Francesco ci ha richiamato a questo cortocircuito: «Il benessere che fa riferimento solamente all’abbondanza materiale tende ad essere egoista, tende a difendere gli interessi di parte, a non pensare agli altri, e a cedere al richiamo del consumismo. […] Il bene comune invece è superiore alla somma dei singoli interessi; è un passaggio da ciò che “è meglio per me” a ciò che è meglio “per tutti”, e comprende tutto ciò che dà coesione a un popolo: obiettivi comuni, valori condivisi, ideali che aiutano ad alzare lo sguardo al di là di orizzonti individuali».

Che cosa ci aiuta ad alzare lo sguardo, a non chiudersi in sé stessi, come singoli, società e Paese?

Il bene comune ha bisogno di…

Un sinonimo di bene comune può essere l’espressione «sviluppo umano integrale», il cui perseguimento ha bisogno di almeno tre condizioni:

  1. Dialogo, con uno stile aperto al futuro. Il dialogo coinvolge tutti i livelli: familiari, comunitari, politici (internazionali e locali). Non si tratta solo di ascoltare e parlare; il dialogo ha bisogno anche di spazi di silenzio, perché tra la parola ascoltata e quella pronunciata vi sia quel lasso di tempo necessario a lasciar risuonare la parola altrui, senza affrettarsi a cercare una risposta qualunque o la riproposizione delle proprie convinzioni. Inoltre il dialogo non si riduce a un faccia a faccia, è una relazione fatta di gesti e azioni, del «fare insieme delle cose. Come ci ricorda continuamente papa Francesco, non è possibile instaurare un dialogo senza fare qualcosa insieme e senza vivere una prossimità.
  2. Compassione «Perché loro e non io?» è una domanda ricorrente nel pontificato di papa Francesco, quando incontra carcerati, migranti, sofferenti. Mettersi nei panni degli altri, di chi fugge dalla guerra, di chi non arriva alla fine del mese, di chi vive la disabilità, di chi non riesce a trovare un lavoro dignitoso (o lo sta perdendo), di chi sperimenta la sofferenza di legami che si spezzano. Sposare la causa degli ultimi, è la migliore angolatura per poter inquadrare il vero bene della comunità. Ma la compassione e la prossimità possono non essere atteggiamenti spontanei, per questo l’educazione e la formazione permanente sono di aiuto per divenire sempre più artefici di un bene che crea comunione.
  3. Creatività nel ricercare quelle soluzioni già oggi praticabili affinché la giustizia distributiva e l’inclusione sociale siano la declinazione della compassione in azioni politiche. Il bene comune ha bisogno di risposte creative e ingegnose che aprano alla profezia e dunque alla speranza.

 

 

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