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I cieli e la terra passeranno

XXXIII domenica del tempo ordinario

Dn 12,1-3; Sal 16 (15); Eb 10,11-14.18; Mc 13,24-32

Quando si avvicina la fine dell’anno liturgico nel corso della messa si proclamano testi collegati alla fine del mondo. È coerenza o piuttosto incoerenza? Il tempo della liturgia è ciclico. Un anno finisce e subito dopo ne comincia un altro e così via. Nell’attuale rito latino: A B C e di nuovo A B C, sempre così; fino a quando?

Il tempo attestato dai passi biblici di carattere escatologico è invece orientato a una conclusione definitiva della storia umana, dopo la quale nulla sarà più come prima. Colto sotto questa angolatura, un brano evangelico come il 13° capitolo di Marco andrebbe letto, in senso pieno, un’unica volta.

Leggere e commentare i passi neotestamentari dedicati alla fine del mondo suscita disagio. La sensazione ha una sua ragion d’essere: la visione del mondo che si aveva al tempo in cui sono state scritte quelle pagine è totalmente diversa dalla nostra. «Il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte» (Mc 13,24-25; cf. Is 33,9-10; 34,4; Am 8,9): ha senso parlare delle stelle del cielo che cadono (dove?) quando il loro numero è fatto ammontare a 1023 (cifra incommensurabile con qualunque esperienza dotata di qualche relazione con noi)?

Forse mai come nei cosiddetti discorsi escatologici un dato fondamentale e irrinunciabile della fede si presenta tanto fortemente impastato con prospettive culturali per noi definitivamente tramontate. Che cosa vi è di irrinunciabile in quei discorsi? Il fatto che il mondo così com’è ora non è quello voluto da Dio. «E quando sentirete di guerre e di rumori di guerre, non allarmatevi; deve avvenire ma non è ancora la fine. Si solleverà infatti una nazione contro una nazione e regno contro regno; vi saranno terremoti in diversi luoghi e vi saranno carestie: questo è l’inizio dei dolori» (Mc 13,8).

La verità di questi passi sta nella loro mancanza di eccezionalità. Da sempre nel mondo ci sono guerre, terremoti e carestie e molti altri, inesauribili mali. Solo il riferimento a Dio ci induce ad affermare che quelle realtà normali nella storia umana vanno giudicate inaccettabili. Il risanamento del mondo non può scaturire dal suo interno, l’umanità peccatrice non è in grado di auto-redimersi. È il tema radicalmente cristiano della grazia. La prospettiva è presentabile in modi diversi da quelli dogmatici. «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria» (Mc 13,26; cf. Dn 7,13-14). La frase esprime l’idea che la definitiva salvezza deve «venire». Venire dall’alto, non scaturire dal basso: «Venga il tuo regno sia fatta la tua volontà come in cielo [dove già si realizza] così in terra [dove ancora non si realizza in pienezza]».

Un sacro sonetto del grande poeta inglese John Donne (1572-1631) inizia così: «E se fosse questa l’ultima notte del mondo?». Il fatto che, secondo le parole del Vangelo, il cielo e la terra passeranno per lasciar posto al mondo avvenire e che solo il Padre conosce l’ora di quando ciò avrà luogo (Mc 13,30-32) dovrebbe attestare, per ogni credente, la perenne attualità di questo interrogativo. E se fosse finalmente giunto il tempo in cui il male sparirà? Ma ciò non avverrà senza che si dileguino gli assi portanti di «questo opaco atomo del Male».

«E se fosse questa l’ultima notte del mondo?». A volte l’interrogativo, commenta un altro scrittore inglese C.S. Lewis (1898-1963), è stato inculcato nelle nostre menti per incuterci paura; non è l’uso giusto, il perfetto amore scaccia la paura (cf. 1Gv 4,18). Ciò che i cristiani moderni trovano difficile da ricordare è il fatto che anche l’intera vita dell’umanità è precaria, temporanea e provvisoria. Gli scienziati prospettano lunghe decadenze entropiche motivate dall’interno, mentre noi mettiamo in conto un’improvvisa interruzione che viene dall’esterno e può sopraggiungere in qualsiasi momento. La posizione di Lewis è trascrivibile in questi termini: l’attesa della fine non è una previsione, è uno stile di vita. Lo attesta Paolo in un passo che inizia con le seguenti parole «Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve» (1Cor 7,29).

 

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