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II domenica di Pasqua | Credere senza vedere

At 2,42-47; Sal 117 (118); 1Pt 1,3-9; Gv 20,19-31 

            «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29). L’episodio dell’apparizione a Tommaso si conclude con queste parole, rivolte da Gesù al discepolo divenuto credente. Una lunga consuetudine interpretativa ha non di rado indotto a tradurre il verbo al futuro e non al passato («Beati quelli che non avendo visto crederanno», trad. CEI 1974). Quando si diceva «crederanno», si applicava pastoralmente la frase a noi stessi. L’assemblea liturgica in effetti si convoca attorno alla Parola e all’eucaristia, non alla visione. Beati – si era soliti dire – siamo dunque noi che crediamo senza vedere. Ma crediamo veramente?

            Credere nella risurrezione è facile solo quando la si pensa come una formula; se la si prende come ragione di vita è certezza continuamente sfidata dalla morte, che mangia le nostre esistenze e dilaga nel mondo. Gli occhi dell’umanità hanno visto infinite volte il venir meno dei viventi. Che l’alito vitale in noi cessi è un’evidenza, non un oggetto di fede.

            Ma chi ha mai visto un risorto entrato così profondamente nella vita da non sperimentare la morte in eterno? La nostra attuale forma di vita non è pensabile senza un tramontare che consegue di necessità dal suo stesso sorgere. Non ci è dato prendere uno solo dei due estremi. Muore solo colui che ha vissuto, e nasce solo chi è destinato a morire.

            La risurrezione conduce a una forma di vita così diversa, da non sapere come paragonarla alla nostra. La fede applica a Dio stesso la qualifica di vivente. Egli però vive in modo tutto differente dal nostro. Questo attributo significa che la nostra vita dipende da lui. Egli vive perché è all’origine delle nostre vite (cf. Lc 20,38). Ciò vale anche per il Risorto. Proprio questo è il senso colto dall’antica lettura patristica, che vede nel gesto con cui Gesù soffia sui discepoli un’allusione all’atto primordiale in virtù del quale Dio rese vivente l’Adam plasmato dalla polvere dell’adamah (suolo; cf. Gen 2,7).

            Il soffio del Risorto è datore di nuova vita. Anche il credente però muore; il principio di vita eterna racchiuso in lui non lo risparmia dall’esperienza della caducità comune. I corpi di tutti invecchiano, si ammalano, s’indeboliscono e infine muoiono. La vita è contenuta in vasi di creta consoni a un uomo fatto di fango. Il germe inesauribile è avvolto dalla fragilità: «Se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno» (2Cor 4,16).

            La richiesta di Tommaso di vedere e toccare il segno dei chiodi, oltre a essere una forma di incredulità, è anche espressione, goffa se si vuole, del desiderio di scorgere un legame tra la vita che consegue alla risurrezione e la nostra attuale esistenza. Nel Risorto le ferite sono trasfigurate, ma non cancellate. È dato perciò scorgere qualcosa di prezioso in quell’incredulità.

            Eppure la beatitudine è per chi ha creduto senza vedere. Uno di costoro è il discepolo amato, che «vide e credette» (Gv 20,8). Ma che cosa vide? La tomba vuota, i teli e il sudario. Vide il vuoto e credette. Il suo vedere fu in effetti un non vedere. Così è la fede, così è la speranza (cf. Rm 8,24). Nella scena della mattina di Pasqua i teli e il sudario hanno la stessa funzione delle mani e del fianco mostrati da Gesù alla sera di quello stesso giorno.

            Il vedere e il toccare. Jorge Luis Borges riferì una volta la risposta di un cieco nato, a cui aveva chiesto che cosa fosse per lui la vista. La persona non vedente rispose che si era resa conto che gli altri esseri umani erano dotati di un senso che permetteva loro di toccare le cose da lontano. Sono parole che lasciano il segno e dicono tutto. I vedenti li comprendono, e ciò suscita in loro un senso di empatia per coloro che sono privi della vista.

            Quando cerchiamo di pensare alla vita del Risorto siamo come ciechi nati: immaginiamo qualcosa di cui siamo privi. Solo quando i nostri occhi (che non saranno più questi) si dischiuderanno alla vita che non conosce tramonto, ci renderemo davvero conto di quanto ora ci manca.

 

 

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