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III domenica di Quaresima | Lo spazio dell’«ora»

Es 17,3-7; Sal 94 (95); Rm 5,1-2.5-8; Gv 4,5-42

            Al centro del colloquio tra Gesù e la samaritana c’è una domanda riferita al luogo di culto. La donna afferma la tradizione del suo popolo, legata al monte Garizim, e chiede ragione del perché i Giudei sostengano che l’adorazione debba avvenire solo a Gerusalemme (cf. Gv 4,20). Il contenzioso sui luoghi sacri è antico e non cessa neppure al giorno d’oggi di riproporsi; chi visita Gerusalemme se ne accorge a colpo d’occhio. Eppure il messaggio del Vangelo di oggi sembra andare in tutt’altra direzione.

            La risposta data da Gesù alla donna di Samaria è duplice: «Viene l’ora in cui né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo perché la salvezza viene [alla lettera «è»] dai Giudei» (Gv 4,21-22). L’andamento della frase sembra contraddittorio; nella seconda parte pare che si riproponga quanto prima si era relativizzato.

            Trascritta in modo volutamente impreciso, la posizione sembrerebbe paragonabile a un discorso di questo tipo: Dio è più grande di tutti i luoghi sacri delle varie religioni, tuttavia la nostra è la religione vera.

            In termini più propri va invece affermato che, secondo Giovanni, è lo spazio a perdere di centralità, mentre il tempo lo mantiene. Senza la storia della relazione di Dio con il popolo d’Israele, il Figlio non avrebbe mai potuto rivelare il Padre che va adorato in spirito e verità (cf. Gv 4,22). Ma proprio per questa via anche lo spazio, in un certo senso, torna ad avere un suo ruolo. La relativizzazione del luogo sacro è annunciata in Samaria, ma è compiuta a Gerusalemme.

            L’abbandono di un’appartenenza discriminante e il radicamento nella propria tradizione, lungi dall’essere incompatibili, si richiamano l’un l’altro. Nel quarto Vangelo la figura di Gesù si staglia molto alta, senza però mai perdere la sua componente umana. L’episodio si apre non a caso con Gesù che, affaticato per il viaggio, siede presso il pozzo (cf. Gv 4,6). L’umanità del Figlio non si risolve però nella condivisione della componente fisiologica. Non c’è dubbio che la sua identità culturale sia giudaica (cf. Gv 4,9). Egli è al di là del giudaismo solo perché è dentro di esso: maschio giudeo, parla a tu per tu con una donna samaritana. Qui si manifesta un senso di libertà autentica inscritta nell’umanità di Gesù; tuttavia il discorso non si limita allo stile di comportamento.

            Per spingersi oltre è bene pensare a due pozzi: uno esplicito, l’altro implicito. Uno è quello di Sicar, occasione per Gesù di promettere un’acqua che estingue la sete per sempre, figura dell’adorazione compiuta in Spirito e verità (cf. Gv 4,14.24). L’altro è il pozzo legato al rito della festa delle Capanne, chiamato «gioia del pozzo», in cui si effettuano libagioni d’acqua nel tempio di Gerusalemme. Durante quella solennità Gesù dice: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura “dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva”» (Gv 7,38). Qui si rende manifesto che l’acqua rappresenta il dono dello Spirito (Gv 7,39).

            La promessa di un’acqua diversa, a cui si era alluso a Sicar, è ripresa con maggiore intensità nel Tempio di Gerusalemme. Era solo da lì che il giudeo Gesù poteva pronunciare una parola più ricca di quella pronunciata presso il pozzo di Giacobbe. Tuttavia neppure in quella circostanza sopraggiunse pienamente l’«ora» di cui si era parlato con la Samaritana (cf. Gv 4,21).

            Nel quarto Vangelo il termine «ora» è sempre dotato di risonanze pasquali (cf. Gv 7,30; 8,20; 12,27; 17,1). Lo Spirito potrà essere donato solo in virtù della morte in croce, avvenuta nello stesso momento in cui, nel Tempio di Gerusalemme, si sacrificava l’agnello pasquale. Quando il soldato colpì il fianco, «subito ne uscì sangue e acqua» (cf. Gv 19,34): l’ora era giunta. «Ora» è un termine legato al tempo e non allo spazio, ma la sua realizzazione avvenne in un «luogo giudaico» e non già samaritano.

 

 

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