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Il torto del «fratello»

XXIII domenica del tempo ordinario

Ez 33,1.7-9; Sal 94 (95); Rm 13,8-10; Mt 18,15-20

Il brano evangelico di questa domenica ci offre un sapiente itinerario per risolvere i conflitti che possono sorgere in una comunità, in un gruppo, tra persone che vivono e condividono un cammino. Fin dall’inizio è bene sottolineare questo aspetto: qui non si tratta di «conflitti» in genere o di litigi con persone con cui non si ha in realtà relazione, ma con dei «fratelli», «se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te».

Il primo accento va quindi posto sul termine «fratello» e su quanto questo significhi: si tratta di una relazione che dice comunione, condivisione; il «fratello» – in senso lato – è colui che condivide con me un’ideale, un percorso, una ricerca, una fede. Una persona quindi che fa parte della mia vita, come io della sua. Questo preambolo per sottolineare che ciò che è in gioco è una relazione importante e che se venisse meno si perderebbe una parte di sé stessi, si verrebbe in qualche modo impoveriti. 

Può quindi succedere che in un gruppo, in una comunità, in una relazione tra «fratelli» qualcuno commetta qualcosa di sbagliato nei confronti di un altro; in questo caso che fare, come agire?

Il primo passaggio è proprio quello descritto: partire da ciò che l’altro è per me, dalla relazione e dal valore che questa relazione ha nella mia vita. In questo modo non sarà la rabbia per il torto subito a guidare le nostre azioni, ma il desiderio di mantenere viva, di preservare e consolidare la mia relazione con quel «fratello». Con questo desiderio nel cuore è possibile allora attuare il secondo passaggio, suggerito dal Vangelo, ovvero quello di parlare con il «fratello», al fine di renderlo consapevole del torto commesso e del male provocato. Importante in questo secondo passaggio è che «l’altro» comprenda che quanto c’è in gioco non è tanto l’accusa di un torto subito, quanto la volontà di non voler rinunciare alla relazione con lui, anzi di volerla così salvare e rinsaldare. A questo punto, ovviamente, c’è sempre la libertà dell’altro, la sua capacità di comprendere o anche semplicemente di riconoscere il torto commesso e, al di là di questo, anche il valore che a sua volta «questo fratello» dà alla relazione con l’altro. 

È possibile anche, continua il suggerimento evangelico, che il «fratello» in questione non riconosca il torto commesso, anzi neghi di aver compiuto tale azione. A questo punto possono intervenire dei testimoni, la cui funzione è quella di «fare verità», ovvero di aiutare il «fratello» a riconoscere il male commesso. Il fatto che siano «testimoni» implica, ovviamente, che facciano parte dello stesso gruppo o comunità e che siano stati presenti al diverbio o a qualsiasi altra cosa il «torto» comporti. Anche i testimoni, quindi, devono avere lo stesso intento, ovvero il riconoscere e il voler salvaguardare il valore della relazione e il bene dell’altro, sia di chi ha subito il torto sia di chi l’ha commesso. 

Potrebbe darsi che anche quest’ultimo passaggio non sia efficace e, a questo punto, il passo evangelico suggerisce un’ultima possibilità, ovvero il riportare il tutto all’interno del gruppo o comunità allargata. Anche qui è importante sottolineare l’atteggiamento di fondo che dovrebbe animare tutte le persone coinvolte: il «fare verità» per la costruzione del bene e l’accoglienza dell’altro. 

Purtroppo bisogna mettere in conto che anche quest’ultima possibilità si riveli vana e che il «fratello», nella sua libertà, non voglia riconoscere il torto commesso, ma soprattutto – e la durezza di cuore lo manifesta – non sia davvero così coinvolto nella relazione con l’altro e con il gruppo o comunità di cui fa parte. In altre parole non sia per lui così importante e vitale. A questo punto non rimane che constatare la sua «estraneità» e lasciarlo andare: «Sia per te come il pagano e il pubblicano». Laddove i termini «pagano» e «pubblicano» vanno ben compresi, nel senso che non vogliono avere un’accezione negativa, ma semplicemente indicare scelte di vita e di fede non condivise dal resto del gruppo/comunità. Ciò che quindi viene constatato è proprio la mancanza di quella comunione di fondo, del legame che avrebbe dovuto caratterizzare l’essere «fratelli».

L’insegnamento sul «rib», termine ebraico che indica il percorso di riconciliazione appena descritto e di cui vi sono altri esempi in tutto il testo biblico (non solo nei Vangeli), termina con un’indicazione importante: «In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo». Solo chi ha ricevuto un torto può dare vita al percorso di riconciliazione appena descritto, e in gioco non c’è solo l’esercizio della sua libertà, ma il fatto che è nelle sue mani la possibilità di «liberare» o meno l’altro, «il fratello», dal male che ha commesso, offrendogli la possibilità di sciogliere proprio quei legacci in cui il suo stesso male lo imprigiona. 

Quest’ultimo passaggio, infine, ci ricorda la responsabilità che abbiamo verso il «fratello» che ci ha fatto un torto. Non è raro che in un gruppo o in una comunità avvengano dei «torti», non solo accade, ma sarebbe molto strano il contrario; è, invece, responsabilità di tutti conoscere i modi e mettere in atto le azioni con cui poterli «sciogliere».

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