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IV domenica del tempo ordinario | Felici perché si spera

Sof 2,3; 3,12-13; Sal 145 (146); 1Cor 1,26-31; Mt 5,1-12

          Nel linguaggio biblico «beato» equivale a «felice»; nessuno si sorprenderebbe se l’inizio del primo salmo (anche in questo caso un’inaugurazione), fosse tradotto così: «Felice l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi» (Sal 1,1). Tuttavia il termine greco per felicità, eudaimonia, non ricorre mai né nel Nuovo Testamento, né nella Bibbia greca dei Settanta. Al suo posto vi è appunto la «beatitudine», o ancor meglio vi è l’aggettivo concreto «beato» (makarios). Per le Scritture la felicità consiste nell’essere proclamati beati.

          In varie lingue il termine «felicità» ha a che fare con la «buona sorte» e con l’accadere (si pensi alla parentela che vi è in inglese tra happy e to happen, accadere). Ciò indica che, per il senso comune, la felicità umana non dipende solo da sé stessi. Nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti si parla di diritto alla ricerca della felicità (consono, peraltro, a un determinato stile di vita), ma neppure lì si osa affermare un aperto diritto alla felicità. Infatti se quest’ultima è connessa all’accadere e alla sua imprevedibilità, la si può perdere con un rovescio di fortuna.

          Negli usi linguistici connessi alla felicità prevale l’augurio, la speranza, l’interrogativo, persino l’esclamativo; inconcepibile invece affermare dall’esterno la salda condizione felice in cui si trova qualcun altro. Se si giunge a farlo («è un matrimonio felice»), è guardando al passato, a quanto è già stato; non si ha l’ardire di spingere lo sguardo in avanti, nessuno infatti sa che cosa riserverà il domani. Queste componenti esistenziali – o persino psicologiche – aiutano a comprendere, per antitesi, il genere letterario proprio della Scrittura chiamato «macarismo» (dal greco makarios, «beato»), che consiste proprio nella proclamazione della beatitudine altrui.

          La faticosa parola tecnica «macarismo» è spia della difficoltà di trovarvi riscontro adeguato nella vita quotidiana. Chi mai, dal di fuori, può arrogarsi il diritto di affermare: «Tu sei felice»? Chi è nelle condizioni, rivolgendosi a un altro, di sostenere: «La tua condizione è stabilmente felice»? Il paradosso delle Beatitudini evangeliche, ancor prima dell’individuazione dei soggetti (i poveri, i piangenti, i miti, gli affamati e assetati di giustizia, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati; Mt 5,3-10), sta nell’arditezza di proclamare dall’esterno la felicità altrui. Nel linguaggio biblico la beatitudine è un detto che dichiara presente la salvezza.

          Il paradosso della parola evangelica è che si sa di essere felici non già perché si sta scrutando il proprio cuore, ma perché si ascolta una voce che, dal di fuori, proclama che si è tali. Nulla è più lontano dal modo comune di sentire. Anche per questo il salto della fede avviene quando si rende certa la speranza, una realtà che nella esperienza comune è, non di rado, esposta a cocenti smentite. Le motivazioni date alle beatitudini hanno a che fare con la realizzazione delle promesse. La loro stessa possibilità di essere proclamate dipende da questa condizione. Una parola esterna afferma: «Tu sei felice ». Una simile espressione ha senso solo se realizza quanto afferma. In definitiva è l’ascolto stesso di quella parola a rendere felici.

          Per questo le Beatitudini potevano essere enunciate solo da Gesù. Si è beati in virtù dall’ascolto della sua Parola. La felicità continua a essere legata a un accadere. La fede afferma che la stabilità di quanto avviene è nelle mani misericordiose di Dio in relazione a quel che sta avvenendo e avverrà. La beatitudine proclamata da Gesù sul monte è la stabilità della speranza. I discepoli a cui è rivolta sono beati anche se vivono in una condizione che, osservata con occhio umano, appare contraddistinta in massima parte dall’infelicità. Non si spera di essere felici; si è beati, cioè felici, perché si spera.

 

 

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