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IV domenica di Pasqua | Una sola porta, un unico pastore

At 1,2-14.36-41; Sal 22 (23); 1Pt 2,20-25; Gv 10,1-10

Vi è un aspetto piuttosto strano nella parabola del buon pastore: la similitudine (cf. Gv 10,1-5) è più chiara della spiegazione (cf. Gv 10,7-18). Giovanni afferma che i discepoli non compresero di che cosa si stesse parlando (cf. Gv 10,6); per ogni lettore il discorso scorre invece via senza difficoltà. Il pastore è l’immagine di Gesù che, a differenza dei ladri, entra dalla porta e chiama per nome le proprie pecore; esse riconoscono la sua voce e lo seguono tra i pascoli. L’immagine pastorale e la divisione tra buone e cattive guide, del resto, erano già ben note alla Scrittura (cf. Ez 34).

L’incapacità degli ascoltatori di passare dal senso letterale a quello simbolico è tipico del quarto Vangelo; basti pensare a Nicodemo (cf. Gv 3,4) o alla Samaritana (cf. Gv 4,10-16). Anche in quei casi ci fu bisogno di una spiegazione che esplicitasse il contenuto dell’immagine. Tuttavia essa, di norma, non modificava la grammatica simbolica del testo. Il nostro caso è diverso. Il mutamento si trova nel fatto che Gesù, nella spiegazione, si identifica con la porta e non solo con il pastore (cf. Gv 10,7). Come tutto quello che è doppio, la sovrapposizione d’immagini crea problemi. Come può Gesù essere l’una e l’altra cosa assieme? Per rispondere a questa domanda occorre prestare attenzione all’altra novità introdotta dalla spiegazione. A differenza di quanto avviene per il ladro, non si tratta solo di udire la voce e seguire il pastore; ora la contrapposizione è giocata in modo più drastico: il pastore, a differenza del brigante, dà la vita per le proprie pecore affinché esse, grazie alla sua offerta, abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (cf. Gv 10,10).

Gesù è porta perché la vita passa attraverso la sua morte. Le pecore che seguono il pastore devono essere consapevoli di cosa significa passare attraverso quella porta. Fuor di metafora, lo seguono in virtù della fede pasquale. Che cosa poi comporti far proprio questo tipo di vita è da mostrarsi non nella dottrina ma nell’esistenza di ciascuno.

Seguire il pastore significa, oltre a essere beneficiati di un dono senza pari, conformarsi al suo modo di agire. L’immagine del bel (in greco c’è kalos) pastore è una delle più antiche dell’iconografia cristiana. La pecorella sta sulle spalle del pastore; proprio in virtù di quel contatto pelle a pelle, essa è chiamata ad adottarne lo stile di vita: «Non c’è amore più grande di chi dà la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Il grano muore per dare molto frutto (cf. Gv 12,23-24). Perché Giovanni nel Vangelo odierno aggiunge «in abbondanza» al termine vita? Perché non si tratta solo di vivere, ma di vivere in un determinato modo, quello appunto che accetta di morire per dare frutto e in ciò affermare di nuovo la vita.

Papa Francesco ha reso famosa l’espressione che i pastori devono impregnarsi dell’odore delle pecore, giusto; ma ancor prima di ciò sono le pecore tutte, siano esse vescovi, presbiteri o laici, a essere chiamate a impregnarsi dell’odore del «buon pastore». Tutti i credenti sono chiamati a varcare un’unica porta e a seguire un’unica guida; la differenza tra la pecora posta alla testa del gregge e le altre conta assai meno della realtà che tutte le accomuna. Le espressioni che parlano di un solo gregge e di un solo pastore (cf. Gv 10,16) si riferiscono a Gesù e alla comunità di tutti i credenti che, quale che sia la loro provenienza, lo seguono al di là del recinto.

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