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La casa del Padre

III domenica di Quaresima

Es 20,1-17; Sal 18 (19); 1Cor 1,22-25; Gv 2,13-25

Nel Vangelo di questa domenica, a prima vista, sembra che l’evangelista Giovanni voglia contrapporre all’importanza e al valore del Tempio di Gerusalemme la figura di Gesù; ciò che fa più pensare questo è lo scambio di battute che si legge tra i «Giudei» e il Maestro. Ma è davvero questo il senso del testo giovanneo? 

In primo luogo bisogna circoscrivere il termine «Giudei»; nel Vangelo di Giovanni, infatti, con questo termine si identifica il gruppo di coloro che si oppongono alla predicazione di Gesù, che criticano le sue parole e il suo pensiero; sono quindi i suoi oppositori, da non confondersi con i Giudei in generale, ovvero con gli ebrei del suo tempo.

Chiarito questo, cerchiamo di capire perché nella zona del Tempio si trovavano dei mercanti venditori di buoi, pecore e colombe e persino dei cambiavalute. Nel Tempio si offrivano culti sacrificali di vario tipo al Signore, e gli animali offerti in sacrificio dovevano essere «perfetti», senza macchia o imperfezioni di qualsiasi genere; inoltre era prevista anche la possibilità di un’offerta in denaro e, in questo caso, le monete non potevano essere quelle in circolazione, dato che portavano l’effigie dell’imperatore di turno; pertanto dovevano essere scambiate con monete di uguale peso e valore che non avessero però alcuna immagine. 

Ora è importante capire che Gesù non contesta queste forme di culto e/o devozione, tutte prescritte nel libro del Levitico. Basta pensare al fatto che anche i suoi genitori avevano offerto al Tempio delle colombe per ringraziare il Signore della sua nascita, o che egli stesso aveva lodato la povera vedova che offriva tutto quello che aveva come obolo per il Tempio.

Il problema dunque non sta nell’osservanza di queste pratiche cultuali, ma nel fatto che, come spesso avviene ancora oggi, l’atto dell’offerta e il business che a volte si creano intorno possano distogliere il credente dall’unica cosa che conta, e che nella tradizione ebraica è detta «kawwanah», l’intenzione del cuore, come le stesse Scritture di Israele insegnano: «Sacrificio e offerta non gradisci (…) mio Dio, questo io desidero la tua legge è nel mio intimo» (Sal 40,7-8).

La denuncia – potremmo sicuramente dire veemente – di Gesù è proprio in questa direzione, e così la comprendono anche i suoi discepoli, che citano al riguardo il versetto di un altro salmo: «Perché mi divora lo zelo per la tua casa, gli insulti di chi ti insulta ricadono su di me» (Sal 69,10). L’amore e la fedeltà per il suo Dio porta l’orante del salmo a essere un tutt’uno con il Signore e a vivere come un oltraggio a se stesso ogni strumentalizzazione e insulto operati a suo nome. 

Ma anche se questo appare evidente agli occhi dei discepoli, risulta invece «sconveniente» agli occhi degli «oppositori» di Gesù, che gli chiedono una conferma – un segno – di così tanta fedeltà al Signore. E qui giunge la risposta di Gesù che, come abbiamo detto all’inizio, potrebbe sembrare un’affermazione contro il Tempio e la sua funzione religiosa. 

Che non si debba intendere in questo modo lo dimostrano molti altri passaggi del Nuovo Testamento in cui Gesù si reca al Tempio per la preghiera, per la predicazione, per le feste di pellegrinaggio, così come continueranno a fare i suoi discepoli dopo la sua risurrezione: «Ogni giorno erano perseveranti insieme nel Tempio» (At 2,46); «Pietro e Giovanni salivano al Tempioper la preghiera delle tre del pomeriggio» (At 3,1; 5,42 ecc.). 

La risposta che Gesù fornisce ai suoi interlocutori è quindi da intendere in un altro modo, come lo stesso Giovanni ci indica: «Rispose loro Gesù: “Distruggete questo Tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Gli dissero allora i Giudei: “Questo Tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?”. Ma egli parlava del tempio del suo corpo».

Come già accennato, dietro a queste parole vi è il salmo 40,7-9 ripreso anche nella Lettera agli Ebrei (Eb 10,5-7), che nella versione greca dei Settanta suona così: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo. Nel rotolo del libro su di me è scritto di fare la tua volontà: mio Dio, questo io desidero; la tua Torah è nel mio intimo”». 

Non contrapposto al Tempio in sé, ma importante affinché ogni azione liturgica o di preghiera abbia davvero valore per un credente è il considerare la propria vita e persino il proprio corpo come un tempio dedicato al Signore, dove egli stesso ha scritto la sua Torah: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (Ger 31,33, citato anche in Eb 8,10). 

Nelle parole di Gesù dunque vi è la denuncia di una forma idolatrica di ritualità, di qualcosa che viene fatto curando la forma, il vestito, l’ambiente, ma senza la «kawwanah», l’intenzione del cuore e, allo stesso tempo, il richiamo alle Scritture di Israele, all’importanza che la Torah sia scritta nel cuore di ogni credente, che sia il motore del proprio agire, la fonte delle proprie intenzioni e azioni.

Così lo capiranno i suoi discepoli, come lo stesso Giovanni annota: «Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù».

Non è dunque tanto il «fare», l’apparire e neanche l’«osservare» le norme ciò che conta, quanto l’avere «a cuore» la parola del Signore e mettere «il cuore» in ogni nostra azione e intenzione.

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