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Lasciarsi illuminare

IV domenica di Quaresima

1Sam 16,1.4.6-7.10-13; Sal 23 (22); Ef 5,8-14; Gv 9,1-41

Con Gv 9,1-41 siamo nel contesto della festa di Sukkot, di cui si parla esplicitamente in Gv 7,37s. Questa festa era caratterizzata da due elementi simbolici, l’acqua e la luce. L’ultimo giorno (Šemini ‘aṣeret), in particolare, oltre ai sacrifici e a una solenne processione per invocare la pioggia si faceva la libagione dell’acqua che i sacerdoti avevano attinto con fiale auree alla sorgente di Siloe.

La luce invece accompagnava tutti i sette giorni della festa, perché a sera il tempio era illuminato tanto da far luce su tutta la città e la sera del primo giorno veniva eseguita una danza con le torce accese nel Cortile delle donne. In Gv 10,22 è poi ricordata la festa della Dedicazione, che celebra la purificazione del tempio di cui in 1Mc 10,36ss, e che è solennizzata con sacrifici, processioni e l’accensione di luci, analogamente alla festa di Sukkot. Siamo dunque in un ambito rituale omogeneo che ci introduce, grazie al tema della luce, al problema del vedere e del non vedere, di chi sia veramente vedente e di chi sia cieco, e da che cosa dipenda lo scarto tra le due condizioni, soprattutto.

Il problema era stato sentito già alcuni secoli prima da Sofocle, che nel confronto tra il cieco Tiresia ed Edipo fa dire al primo: «E dato che tu a me rinfacciasti l’esser cieco, io ti dirò: veggente, tu non vedi a quale passo di tua triste via sei giunto» (Edipo re, vv. 373ss). Non basta avere occhi fisicamente sani per vedere. Il cieco Tiresia conosce il passato di Edipo e «vede» quindi il perché della pestilenza che si è abbattuta su Tebe.

Bisogna fare i conti col passato – tutti gli storici lo dicono e anche Tiresia lo sa –, come se da esso dipendesse la conoscenza delle verità che ci riguardano. Di questo paiono convinti anche i discepoli che, a confronto col cieco, chiedono che peccato si nasconda nel passato suo o della sua famiglia. Gesù non esclude in assoluto questa connessione, peraltro presente già nel Primo Testamento, ma la esclude nel caso specifico del cieco che è invece orientato a manifestare le opere di Dio. Qualcosa di analogo Gesù dirà a proposito della morte di Lazzaro (Gv 11,40).

Quanto al cieco, Gesù ne guarda e vede la sofferenza, non un eventuale peccato. Per «vedere», in fondo, tutto dipende dalla luce e dal «come» si guarda. Gesù insiste sul contrasto giorno/notte determinato dalla sua temporanea presenza: c’è un momento salvifico da cogliere, perché basta poco per perdere tutto.

Dunque non ci sono conti da fare, bisogna piuttosto accogliere la luce. Il cieco infatti non chiede nulla, ma accetta di essere illuminato senza dire una sola parola: accetta la guarigione attraverso il fango – materia non nobile, ma che ricorda all’uomo la sua condizione creaturale – e va alla piscina là dove si attingeva l’acqua della libagione, affrontando poi critiche ed emarginazione anche dalla propria famiglia, perché la luce è un elemento dirimente e giudicante. Giunge infine a una confessione di fede di fronte a un’indiretta autorivelazione di Gesù (v. 37).

Il paradosso di Tiresia si ripresenta alla fine del capitolo, nella breve discussione tra Gesù e «alcuni dei farisei». Di fronte al giudizio annunciato, viene ribadito che in qualche modo ognuno si giudica da solo e che, per vedere, bisogna lasciarsi illuminare. Neppure conoscere il passato, per quanto importante, può bastare; conta piuttosto cogliere l’attimo di luce che viene offerto.

Accanto a questo tema, l’acqua. C’è una relazione, benché poco appariscente, tra il fatto che il cieco vada a Siloe a lavarsi e il fatto che da lì venisse l’acqua usata per le libagioni di Sukkot. Quest’acqua infatti ha tutto il sapore del miracolo. Non sapremo mai come avessero fatto i Gebusei, in quelle colline aride, a scoprire la sorgente di Gihon che alimenta la piscina grazie a due tunnel, uno più antico e uno fatto scavare dal re Ezechia, più o meno nel 700 aev, per alimentare un pozzo entro le mura e provvedere d’acqua la città in caso di assedio (2Re 20,20). Il canale stesso ha qualcosa di miracoloso. Basta leggere l’iscrizione trovata nel tunnel, che ricorda le voci di coloro che scavano e si chiamano fino a incontrarsi: anche le opere umane, se guardate nella giusta luce, possono essere lette come miracoli.

 

 

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