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Le tre prove e l’Israele fedele

I domenica di Quaresima

Gen 2,7-9; 3,1-7; Sal 51 (50); Rm 5,12-19; Mt 4,1-11

Presente in tutti e tre i Sinottici, letto spesso e più spesso malamente citato, il racconto delle tentazioni, o piuttosto delle «prove», assume colore e significato differenti, come sempre succede, a seconda degli interessi del redattore e della Chiesa a cui si rivolge.

Matteo premette al ministero di Gesù come prologo interpretativo il racconto del battesimo e delle tentazioni. Tale prologo rivela al lettore chi sia Gesù e quale sia la missione che sta per intraprendere.

Il racconto del battesimo si chiude infatti con l’epifania e la solenne proclamazione di Gesù come figlio amato di Dio.

A suo tempo avevamo visto quale valore dare all’aggettivo «amato», e come questo preannunciasse un destino. Il racconto delle tentazioni approfondisce questa identificazione, su cui Gesù viene come esaminato (peirazein). Non a caso le prime due tentazioni cominciano come mettendo in dubbio la proclamazione appena avvenuta (cf. Mt 4,3.6): ei uios ei tou theou, «se sei figlio del Dio», intendendo YHWH che i Settanta traducono appunto o theos. La stessa domanda e negli stessi termini compare in Lc 4,3.9: cambiando però il contesto immediato e remoto, ne cambia anche il colore.

Il tentatore in Matteo vuole sottoporre a verifica la figliolanza che deve manifestarsi nella relazione che Gesù ha con Dio, il Padre.

Come sappiamo, la triplice prova viene superata con tre citazioni del Deuteronomio (da notare però che il tentatore è altrettanto preciso nelle sue citazioni, a differenza del serpente di Gen 2, che le manipolava con pochi abili aggiustamenti). Matteo ricorre alla versione greca dei Settanta, e forse anche a qualche testo della tradizione rabbinica, in ogni caso Gesù dimostra, per così dire, di aver ascoltato la parola della Torah con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze (cf. Dt 6,4), ovvero secondo quanto detto nello Šema’, la professione di fede che si recita tre volte al giorno.

Già negli anni Settanta del secolo scorso B. Gerhardsson, seguito poi da F.C. Fensham, aveva visto le esigenze dello Šema’ come filigrana del racconto di Matteo attraverso le interpretazioni midrashiche di «cuore», «anima», «forze».

Il «cuore», come già noto dal Primo Testamento, è il centro della persona, il luogo del pensiero, della conoscenza, del discernimento, della decisione e dell’adesione di fede.

Con «anima» s’intende invece il soffio vitale, il respiro attraverso il quale l’uomo vive e si fa riconoscere vivo.

Le «forze» sono invece i beni di fortuna, per i quali il Targum preferisce il termine mamon, che in qualche modo conosciamo anche noi come «ricchezza» o «denaro», in genere con connotazione negativa, ma che manifestano l’umana capacità di gestire sé stessi e il mondo attorno a noi.

Le tre tentazioni, che riguardano la propria sussistenza ponendo la domanda su quale sia il vero cibo, la propria protezione e l’idolatria, investono la vita corporea e la professione di fede, cogliendo la persona nella sua interezza e nella sua totale adesione a Dio.

Esse ripropongono le costanti tentazioni di ognuno di noi alle radici delle quali sta sempre una fede vacillante: la preoccupazione della sopravvivenza e del domani, di cui parlerà Mt 6,25ss; la voglia di sfidare gli equilibri insiti nella creazione con una specie di titanismo che non riconosce la propria dipendenza da Dio; l’idolatria che è l’unico vero peccato, da cui gli altri dipendono e dal quale siamo insidiati in particolare attraverso il denaro come strumento di potere.

Tutto questo decentra dalla fede professata nello Šema’ che Gesù invece, da figlio, porterà alle estreme conseguenze, come si vedrà a suo tempo nel racconto della passione.

Infine non sarà superfluo ricordare che le tre prove riprendono tre momenti del cammino dell’Esodo, proponendo Gesù come l’Israele fedele. Sono quelli della manna, la contesa di Massa e Meriba, l’adorazione del vitello. Tutti e tre, se visti da vicino, attestano una tremenda perdita della memoria Dei, mentre Matteo richiama una fede che ricorda e ripete la parola di Dio.

Di fronte alla magia del tutto-e-subito, Gesù risponde da figlio con l’obbedienza alla parola di Colui che lo ha proclamato tale.

Perché tutti noi diventiamo ciò che ascoltiamo.

Commenti

  • 05/03/2020 Giovanni Manco

    Grazie per la splendida esegesi di questo testo neotestamentario! p. Gianni Manco, missionario PIME

  • 02/03/2020 I. Bianchetti

    Che dire... solo grazie. Tanto sapere tradotto semplicemente per chi non è preparato chi non ha studiato: leggendo mi sento capace di "capire" e poi in silenzio meditare.

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