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«Li condusse su un alto monte»

II domenica di quaresima

Gen 22,1-2.9a.10-13.15-18; Sal 115 (116); Rm 8,31b-34; Mc 9,2-10

In questa domenica ci viene presentata la visione marciana dell’episodio della Trasfigurazione. Che questo episodio sia rimasto notevolmente impresso nella memoria dei tre discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni – che come testimoni oculari lo hanno successivamente trasmesso – risulta evidente non solo dal racconto, che compare, oltre che qui in Marco, anche in Matteo e Luca, ma anche da ciò che si legge nella Seconda lettera di Pietro: «Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”. Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2Pt 1,17-18).

La scena si svolge su di «un’alta montagna»; di fatto in tutti i testi che parlano di questo episodio non c’è nessun ulteriore dettaglio che ci aiuti a individuare con precisione di quale montagna si tratti, e solo a partire dal III-IV secolo d.C. la tradizione lo identifica con il monte Tabor, situato in Galilea nella valle di Izreel. Proprio per questo motivo alcuni studiosi hanno ipotizzato che il «monte santo» – così come lo chiama Pietro – fosse in realtà l’Ermon, situato molto più a nord e al confine tra l’attuale Israele, Siria e Libano.

Al di là comunque dell’esatta collocazione del luogo, nella scena descritta da Marco, a differenza di Matteo e Luca, che si limitano a descrivere il volto di Gesù trasfigurato e le sue vesti «candide», si dice che tali vesti «divennero bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche». L’insistenza sul «bianco» ha un chiaro riferimento a una dimensione ultraterrena; così, infatti, viene descritto il «vegliardo» nella visione di Daniele: «la sua veste era candida come la neve e i capelli del suo capo erano candidi come la lana» (Dn 7,9). La stessa immagine viene ripresa nell’Apocalisse nella descrizione del «Figlio dell’uomo»: «I capelli del suo capo erano candidi, simili a lana candida come neve» (Ap 1,14) e, sempre nell’Apocalisse, le «vesti bianche» (Ap 3,4) sono il segno della risurrezione.

L’idea è quindi quella di sottolineare che quanto è apparso agli occhi dei discepoli ha a che fare con qualcosa che è oltre la realtà umana e terrena. 

E di fronte a Pietro, Giacomo e Giovanni non c’è solo Gesù – potremmo dire oggi nella sua pienezza di vita –, ma anche Elia e Mosè che conversano con lui. 

Ma perché proprio Elia e Mosè? Sono diverse le risposte e tutte da tenere insieme per comprendere la profondità di tale momento. La prima, senz’altro quella più immediata, è che Elia e Mosè rappresentano le Scritture di Israele, i Profeti e la Torah. Sono le Scritture di Israele il luogo ermeneutico entro cui Gesù comprende il proprio messianismo così come egli stesso, nell’episodio narrato da Luca, espliciterà ai suoi discepoli: «E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,27). 

Inoltre sia Elia sia Mosè sono stati in qualche modo «trasferiti» in cielo. Elia, secondo il racconto di 2Re 2,11, viene trasportato in cielo da un carro di fuoco. E secondo una tradizione ebraica riportata da Giuseppe Flavio, mentre Mosè «salutava Eleazaro e Giosuè e stava ancora parlando con loro, una nube si posò all’improvviso su di lui ed egli scomparve in una valle».

Un terzo elemento in comune è che sia Mosè sia Elia hanno vissuto lo stesso sconforto, la stessa solitudine e incomprensione che ora Gesù sperimenta nella sua carne. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che questo episodio è successivo a quello di Cesarea di Filippo (Mc 8,27-33), dove l’incomprensione sulle modalità del suo ministero messianico raggiungono il massimo del disaccordo e del rifiuto proprio da parte di Pietro che, in quella circostanza, viene definito da Gesù «satana»! 

Il clima dunque nel quale i tre discepoli accompagnano il Maestro su questo sacro monte non è tra i migliori, e sicuramente dopo l’episodio di Cesarea di Filippo Gesù è sempre più solo e incompreso. Ecco allora che la presenza di Elia e Mosè, rappresentanti le Scritture di Israele, di due colonne che hanno guidato il popolo e servito il Signore, che hanno sperimentato anch’esse la delusione, lo sconforto e l’incomprensione, ma che ora risplendono – come dice Luca – «nella loro gloria», appaiono qui come consolazione del Messia, comprovano il suo ministero messianico e rendono testimonianza alla pienezza di vita della sua risurrezione. 

A tutto questo si aggiunge l’arrivo della «nube», segno costante della presenza di Dio, quella stessa «nube» che ha accompagnato il popolo lungo tutto il cammino nel deserto, e da questa nube la voce che tutti e tre i discepoli possono udire: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». Il sigillo finale all’autenticità messianica di Gesù è dato direttamente dal Padre, che conferma quanto già si era udito nell’episodio del Battesimo: «E venne una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”» (Mc 1,11). 

Rimane ancora la distanza, non fisica o spaziale, ma spirituale e, direi, intellettiva tra Gesù e i suoi, quello scarto tra il modo di pensare e di agire di Dio e la capacità umana di comprenderlo e a volte di «adattarlo» ai propri pensieri o interessi.

In tutto questo non siamo molto distanti o diversi, ancora oggi, dai tre «accompagnatori» di Gesù, ma rimane comunque a testimonianza anche per l’oggi in cui ci troviamo quella visione trasfigurata, verso cui alzare gli occhi per uscire dai nostri orizzonti ristretti e che allo stesso tempo ci rimette davanti quella «salutare» distanza tra il «disegno di Dio» e la nostra comprensione di esso. Una distanza che invita al cammino, all’accoglienza del nuovo e, soprattutto, allo scardinamento di ogni nostra «metafora» umana con cui spesso cerchiamo di definire, incapsulare la realtà divina nella nostra realtà terrena.

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