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L’iperbole del perdono

XXIV domenica del tempo ordinario

Sir 27,33-28,9; Sal 103 (102); Rm 14,7-9; Mt 18,21-35

L ' insegnamento sul perdono secondo Matteo è all'insegna delle iperboli numeriche.

La prima: Pietro rivolge a Gesù una domanda, che non pare capziosa né improntata al fatto di volersi giustificare. È una domanda legittima su un tema che si poteva dibattere, come quello se fosse lecito o no salvare una vita di sabato (cf. Lc 6,9), e che cosa poi volesse dire salvare una vita. Il fatto che Pietro precisi «sette volte» , sapendo che questo numero indica pienezza e compimento, dunque in qualche modo un massimo oltre il quale c'è da chiedersi se si possa andare, dice appunto che la domanda ha un suo fondamento. Il fatto però che Gesù lo moltiplichi per un suo multiplo equivale a dire che non c'è un tetto per il perdono, ma che deve essere elargito un numero incondizionato di volte e si tratta del perdono verso un fratello che abbia peccato «contro di me »(V. 21).

La seconda: alla morte di Erode il grande (4 avanti era volgare) l'imperatore Augusto assegnò ad Antipa la Galilea e la Perea, che gli versavano un tributo di 200 talenti l'anno. A Filippo toccarono la Traconitide e alcuni altri territori, per una rendita annua di 100 talenti (cf. Giuseppe Flavio, Ant. XVIII 318-319).

Che un re voglia regolare i conti con i suoi servi ( douloi 18,23), ovvero questi funzionari, e che uno di abbia accumulato un debito di 10.000 talenti, appare poco credibile. La cifra è analoga e opposta al «settanta volte sette» che precede, ossia del tutto fuori misura: non si capisce neppure come possa averli spesi un semplice funzionario e come si pensi di ripianare il debito vendendo lui, la moglie, i figli, i beni di fortuna. È evidente che si vuole indicare una sproporzione.

Se si perdona a un fratello una quantità infinita di volte, il debito nel e verso il regno è altrettanto indefinito. Tuttavia il re mostra di avere compassione (splanchnistheis, 18,17), con un verbo che i sinottici usano per la compassione che Gesù mostra verso le folle e gli infermi e chi gli chieda aiuto (cf. Mt 9,36; 14,14; 20,34; Mc 1,41; 9,22; Lc 7,13; 15,20).

Questo funzionario, a sua volta, ha un credito del tutto ragionevole presso un collega (ena ton syndoulon, v. 28), ma si dimostra assolutamente spietato, a riprova del fatto che purtroppo non sempre il perdono ricevuto cambia il cuore di colui che lo riceve. Costui è tanto spietato da muovere a indignazione i colleghi (syndouloi, 18,31).

La situazione è davvero squilibrata, non solo per il numero iperbolico, ma soprattutto per l’atteggiamento del funzionario.

Il racconto risulta così un’efficace esemplificazione di Mt 6,12: e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Questa clausola ha vari antecedenti nel Primo Testamento e ha il suo fondamento in Dio stesso, che Nehemia (cf. 9,17) chiama il Dio dei perdoni. Del resto egli e il suo modo di agire sono il riferimento costante di qualunque norma o disposizione.

Queste righe di Matteo capitano quest’anno in prossimità di Roš ha-Šhana, il capodanno ebraico. Gli farà seguito, a distanza di dieci giorni, Yom Kippur, il «Giorno dell’espiazione». Questi dieci giorni (̛aseret yeme tešuba «Dieci giorni di conversione» o Yamim noraim, «Giorni terribili») servono per un accurato esame di coscienza e una seria decisione di conversione.

Occorre notare che si può chiedere e avere il perdono di Dio direttamente per i peccati commessi verso di lui, ma per quelli commessi verso il prossimo è necessario chiederlo alle persone interessate, dopodiché si avrà anche quello di Dio. Chi sia offeso può rifiutare il perdono due volte, ma alla terza richiesta è tenuto a perdonare, per essere perdonato a sua volta quando lo chieda. Rifiutare il perdono infatti è colpa molto grave.

È vero però che ci sono peccati che sembrano senza perdono , o per la loro vastità o perché non esistono più gli offesi in grado di perdonare. V. Jankélévitch, prendendo in esame il problema del perdono nei confronti dei crimini di portata universale, «tra l'assoluto dell'amore e l'assoluto della libertà malvagia», quasi parafrasando il Cantico dei cantici (8,3), conclude amaramente che «il perdono è forte come il male, ma il male è forte come il perdono» .

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