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Ne ebbe compassione

XV domenica del tempo ordinario

Dt 30,10-14; Sal 19 (18); Col 1,15-20; Lc 10,25-37

 

Ne ebbe compassione

 

            La discussione su quali siano i due più grandi comandamenti della Legge è presente in tutti e tre i Vangeli sinottici (Mt 22,34-40; Mc 12,28-31; Lc 10,25-28). Solo in Luca essa sfocia però in una parabola, quella del samaritano (Lc 10,29-37) (l’aggettivo «buon» non è contenuto nel testo).

            In Marco l’interlocutore è uno scriba, il quale, in risposta alle parole di Gesù, commenta dicendo che l’amore di Dio e l’amore del prossimo valgono «più di tutti gli olocausti e i sacrifici» (Mc 12,33). Nella parabola lucana l’affermazione trova una specie di corrispondenza narrativa. Tre persone scendevano da Gerusalemme a Gerico, le prime due erano un sacerdote e un levita, il terzo un samaritano. Quest’ultimo certamente non era salito al tempio. Nel capitolo precedente si dice che un villaggio di samaritani non volle accogliere Gesù proprio perché stava salendo verso Gerusalemme (Lc 9,53), cioè probabilmente verso quel santuario da loro rifiutato (cf. Gv 4,20). Di contro il sacerdote e il levita erano uomini che operavano, a turno, proprio nel tempio (cf. Lc 1,8). Essi, che avevano celebrato l’amore cultuale per Dio, ignorarono l’amore del prossimo prescritto dalla Legge (Lv 19,18).

            In Luca il discorso inizia da un confronto avvenuto tra Gesù e un dottore della Legge relativo ai due precetti dell’amore di Dio e del prossimo (Dt 6,4-5; Lv 19,18). Per giustificare il fatto di aver domandato quanto già sapeva, il maestro ebreo chiede chi sia il suo prossimo. La parabola prende le mosse da questo interrogativo. Essa mette al centro la figura di un uomo (anthropos) scorto lungo la via. Di lui non si specifica altro, se non da un lato la sua accomunante condizione umana, e dall’altro il suo bisogno di essere aiutato, fattore che lo distingue da coloro che sono chiamati a soccorrerlo.

            Le componenti identitarie sono presenti in coloro che si trovano nelle condizioni di prestar aiuto (sacerdote, levita, samaritano) non in chi giace mezzo morto ai bordi della strada: egli è semplicemente un uomo. Il sacerdote, il levita e il samaritano possono decidere se diventare prossimo allo sventurato; i primi due passano oltre (così facendo cadono nella spirale dell’omissione), il terzo invece lo soccorre.

            Sull’altro versante al ferito non è invece dato di scegliere alcunché. Per lui chi lo aiuta diviene il suo prossimo, mentre gli altri restano degli estranei. Alla fine della parabola Gesù domanda: «“Chi di questi tre ti sembra che sia stato prossimo a colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. Quello rispose: “Colui che gli ha fatto misericordia (eleos)”» (Lc 10,36-37). Occorre, quindi, affermare non tanto che ogni persona umana è mio prossimo, quanto che ognuna può diventarlo se agisco nei suoi confronti all’insegna di una fattiva misericordia. La prossimità è il frutto di una relazione che trasforma l’estraneo in vicino.

            La parabola svela il motivo che spinse il samaritano ad agire. La discussione parte dal precetto e ne esemplifica la portata, chiamando però in causa un modo di prestar aiuto che non si misura affatto con il comandamento. Data l’ambientazione, bisogna presupporre la conoscenza del precetto del Levitico anche da parte del samaritano (il Pentateuco faceva parte pure della sua tradizione religiosa); tuttavia egli, che non era salito al tempio, agisce a motivo dell’estroversione delle proprie viscere e non già per mettere in pratica il comandamento.

            Il suo aiuto è mosso da questa motivazione: «Passandogli accanto vide e ne ebbe compassione (esplagchnisthe)» (Lc 10,33). «Vide», il verbo è usato per tutti e tre i personaggi. Il sacerdote e il levita non sono nelle condizioni di accampare la scusa di non aver scorto. Gli occhi accomunano, l’animo e le mani distinguono. All’universalità del soggetto a cui si presta soccorso («un uomo») corrisponde quella del motivo che induce a operare. Si parte discutendo di un precetto biblico, ma si agisce sospinti da un moto di compassione potenzialmente presente nell’animo di tutti, ma in pratica operante solo in qualcuno.

            Nella parabola l’autentica universalità va ricercata non tanto nell’allargare il raggio di riferimento di chi è già in partenza il mio prossimo (non solo il concittadino, il connazionale ma anche lo straniero ecc.), quanto nelle motivazioni che spingono a farsi prossimo. Avere compassione (verbo esplagchnizomai) è legato alla condizione umana e non a una determinata appartenenza religiosa. La battuta finale del dottore della Legge che individua colui che è diventato prossimo in «colui che fece misericordia (ho poiesas to eleos) [la CEI traduce impropriamente con “compassione”]» (Lc 10,37) è giusta ma non fino in fondo. L’aver usato «misericordia» piuttosto che «compassione» in questo caso indica, forse, la distanza che c’è tra chi opera e chi si limita a parlare dell’agire altrui.

Commenti

  • 13/07/2019 Valem39

    Tutto sta in quel "vedere" anziché "guardare": ne viene che solo chi ha "l'occhio semplice" sa amare, ma l'occhio semplice implica sempre uno stato di grazia che procede da una particolare conformità allo Spirito Santo, ragione che non consente alla semplice "umanità" di saper vedere.

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