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Nella forza dello Spirito

Ascensione del Signore

At 1,1-11; Sal 47 (46); Eb 9,24-28; 10,19-23; Lc 24,46-53

Luca, dopo il prologo «storiografico» (cf. Lc 1,1-4), fa iniziare il suo Vangelo presentando la figura di Zaccaria mentre svolge le proprie funzioni sacerdotali nel tempio di Gerusalemme (cf. Lc 1,8-9). Tra quelle sacre mura riceve l’annuncio della nascita di colui che sarà chiamato Giovanni Battista, un evento strettamente legato all’annunciazione rivolta, non molto tempo dopo, a Maria (cf. Lc 1,36).

L’evangelo di Gesù prende avvio nel tempio. Giunto all’estremo opposto, Luca chiude il proprio Vangelo affermando che dopo l’Ascensione gli apostoli «tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio» (Lc 24,52-53). Il Vangelo finisce là dove comincia. Se fosse semplicemente così sarebbe una reiterazione inquietante, l’ipotesi va però destituita di fondamento: la conclusione, infatti, è a propria volta un inizio. Si è molto lontani dal chiudere il cerchio per finire dove si era iniziato. Gli ultimi versetti del terzo Vangelo indicano, non a caso, un’apertura.

L’offerta dell’incenso compiuta da Zaccaria in virtù dell’annuncio angelico congiunge la lode a Dio a quanto il Signore farà a favore tanto del suo popolo quanto delle genti. Simeone nel tempio prese in braccio il piccolo Gesù, benedisse Dio e affermò che i suoi occhi avevano visto la salvezza: «Preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti (alla lettera “luce per rivelare le genti”, così anche in latino “ad revelationem gentium”) e gloria del tuo popolo, Israele» (Lc 2,30-32).

Il tempio, il luogo dove abita la gloria del Signore (cf. 1Re 8,10-13), si apre verso l’annuncio rivolto alle genti. Dopo l’Ascensione gli apostoli lodano Dio nel tempio; per loro è anche un momento di attesa, sono in quel luogo per prepararsi ad andare in altri luoghi: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà da morte il terzo giorno, e a tutti i popoli saranno predicati la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo siete testimoni»; segue il comando di restare in città fino a quando scenderà lo Spirito (cf. Lc 24,46-49). La città di Davide e il suo tempio sono un punto di partenza ma anche, temporaneamente, un luogo di sosta in attesa della Pentecoste.

La ricerca biblica evidenzia la forte unità dell’opera lucana, il Vangelo e gli Atti degli apostoli sono due momenti di un progetto unitario. È così. L’Ascensione, oltre a essere la conclusione del Vangelo, costituisce l’apertura degli Atti (prima lettura At 1,1-11). Le parole che contraddistinguono l’una e l’altra scena sono le stesse: «Riceverete la forza dello Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria fino ai confini della terra» (At 1,8). Gesù Cristo sale al cielo perché l’evangelo, attraverso i suoi discepoli, si diffonda sulla terra. Il senso della missione è rendere presente nel mondo chi in prima persona non è più tra noi. Per questo l’annuncio dovrebbe essere contraddistinto soltanto dalla forza dello Spirito, vale a dire da una forza radicalmente diversa da tutte le altre (cf. Zc 4,6).

A lungo nella storia cristiana la missione è stata sorretta dalla potenza e la testimonianza è stata sostituita dalla prepotenza. Oggi, in più circostanze, le cose rischiano di essere opposte. Viviamo in società sempre più multireligiose, areligiose eppur anche contraddistinte da un uso identitario e nazionalistico della religione; è una situazione inedita, che mette in discussione molte convinzioni e nella quale sembra perdere consistenza la stessa urgenza di annunciare l’evangelo.

Il lascito più stringente collegato all’Ascensione e alla promessa dello Spirito sta però nel predicare la conversione e il perdono dei peccati. Si è testimoni di Gesù Cristo venuto, presente ma anche ancora da venire: «Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).

La mitezza della testimonianza si regge su questa speranza; a dirlo sono le grandi parole della I lettera di Pietro, che ci chiamano a dar ragione della speranza che è in noi: «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza, rispetto e con retta coscienza» (1Pt 3,16); la speranza è mite perché, per definizione, è in se stessa un fattore non identitario.

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