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Nulla va perduto

XIII domenica del tempo ordinario

2Re 4,8-11.14-16; Sal 89 (88); Rm 6,3-4.8-11; Mt 10,37-42

Con Mt 10,37-42 si conclude il discorso missionario. Sarà necessario partire dal v. 34, in cui Gesù dichiara quale sia lo scopo e il presupposto, nello stesso tempo, della sua venuta.

La sua dichiarazione può ricordarci la profezia di Simeone riferitaci da Lc 2,35: di fronte a lui non si resterà neutrali, una spada trapasserà l’anima di Israele, famiglia per famiglia, sinagoga per sinagoga. Che si tratti di un grosso coltello d’uso quotidiano o una spada corta (machaira, cf. Mt 10,34), oppure di una lunga spada da combattimento, eventualmente a due tagli (romphaia, cf. Lc 2,35), la venuta di Gesù si rivela sempre come qualcosa che divide, separa, fa soffrire e, alla fine, sanguinare. D’altra parte sappiamo fin dal principio che non ci può essere vera unione né comunione senza una previa separazione; la stessa opera della creazione è spesso divisione e separazione, e culmina in quella dell’uomo dai suoi genitori per la donna (cf. Gen 2,24), nella migrazione di Abramo (cf. Gen 12,1ss) e infine nell’elezione d’Israele.

Sotto il segno della separazione sono perciò le caratteristiche di chi voglia seguire Gesù.

Troviamo infatti alcune brevi affermazioni a due membri: il primo, costruito in quasi tutti i casi con un participio, enuncia la caratteristica del discepolo, il secondo la conseguenza. Sono affermazioni incisive che non hanno nulla di ipotetico, come per esempio Lc 14,26. Si è «degni» essendo decisi nella separazione dalla famiglia e dagli affetti naturali (il verbo «amare» è phileo) come dalla più vasta famiglia della sinagoga, fino a prendere la croce, ovvero sino a percorrere lo stesso itinerario di Gesù, che di fatto ha lasciato la famiglia, di cui non sapremo più nulla. Avremo solo qualche accenno alla madre che però egli tratta con molto distacco, niente su Giuseppe. La croce, stauron (v. 38), compare qui per la prima volta, e come sappiamo indica una morte da reietti, se vogliamo il massimo della separazione sociale.

Al centro sta il problema della psyche, che in questo caso è tradotto «vita» e non «anima». Nel termine «vita» si contrappongono qui due realtà: la vita nel tempo e le ragioni che la guidano e la sorreggono. La domanda è se per vivere si possa rinunciare alle ragioni del vivere. Detto così è una domanda retorica, perché certamente non si può, pur di sopravvivere, perdere queste ragioni. Chi per esse invece rinuncia a sopravvivere ritrova la sua vita in maniera autentica. Semmai si tratta, per il discepolo, di conoscere queste ragioni e identificarsi con esse, appunto fino alla croce.

Se le condizioni dei primi due versetti hanno come esito l’essere degni, gli ultimi due parlano invece di una ricompensa (misthon). Non si precisa quale essa sia, se non che è pari o adeguata alla persona accolta. Di un profeta, se si accoglie un profeta; di un giusto, se si accoglie un giusto. Tuttavia la ricompensa toccherà anche nell’unico caso presentato come ipotesi (os an potise, v. 42), che riguarda una cosa molto piccola come un bicchiere d’acqua, non una testimonianza estrema come la croce. A dire che nulla va perduto e che non esiste insignificanza nel bene.

Tra l’essere degni e una ricompensa sta la vita da trovare o da perdere. Perché la vita non è qualcosa da rapinare, alla maniera dei progenitori, che han preso con rapina ciò che era già loro (cf. Gen 3,1ss). La vita si riceve in dono, non come qualcosa da custodire in maniera passiva, ma da trafficare a proprio rischio, fino al totale dono di sé.

La stessa vita in termini meno drammatici e più quotidiani tocca in sorte alla donna di Šunem che appunto ha accolto un profeta. Per lei la ricompensa è un figlio da abbracciare (cf. 2Re 4,16) che rappresenta la vita, nella forma del futuro suo e della sua famiglia.

La donna ha esercitato un’ospitalità generosa e intelligente e quando il profeta le ha fatto chiedere se avesse bisogno di protezioni altolocate ha risposto semplicemente che si sente tutelata dal suo clan (v. 13). Non conosce l’identità profetica di Eliseo, sa che è ̛̛iš ̛elohim, «un uomo di Dio», genericamente, ma già dalla sua vicenda sappiamo che nulla nel bene va perduto.

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