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Pentecoste | Le molte lingue dell’unico Spirito

Pentecoste

At 2,1-11; Sal 104 (103); Gal 5,16-25; Gv 15,26-27; 16,12-15

Tra le feste bibliche di pellegrinaggio nelle quali si saliva al tempio di Gerusalemme vi era anche quella di Shav‛uot (Settimane) posta sette settimane dopo Pasqua (cf. Es 23,16; 34,22; Lv 23,15-21; Nm 28,26-31; Dt 16,9-12).

Dotata inizialmente di un significato agricolo, essa divenne, in un’epoca difficile da precisare, anche celebrazione memoriale del dono della Torah avvenuto sul Sinai. Quest’ultimo senso si trova tuttora al centro della celebrazione ebraica. Nella liturgia sinagogale di Shav‛uot viene recitato il sessantottesimo salmo.

Proprio a partire da questo non semplice testo si è originata una profonda riflessione sulla Parola e sulle sue letture, che mette in luce significati capaci di entrare in dialogo anche con la Pentecoste cristiana. «Che cosa significa ciò che è scritto: “Il Signore ha dato una parola, annunci per un’armata numerosa” (Sal 68,12)? [Significa] che ogni parola uscita dalla bocca del Signore, sul monte Sinai, si divideva in settanta lingue» (Talmud babilonese, Shabbat 88b), affinché potesse essere udita da tutti i popoli sparsi sulla faccia della terra (cf. Midrash, Esodo Rabbah, 5,9).

L’universalità dell’unica parola è collegata alla molteplicità dei suoi significati: «“Non è forse così la mia parola: come il fuoco, oracolo del Signore, e come un martello che frantuma la roccia?” (Ger 23,29). Come un martello sprigiona molte scintille, così ogni parola uscita dalla bocca di Dio si divideva in settanta lingue» (Talmud babilonese, Shabbat 88b). Altrove la stessa immagine esprime i molteplici sensi attribuibili a un solo passo della Scrittura (cf. Talmud babilonese, Sanhedrin, 34 a). L’origine è unitaria, gli effetti sono molteplici ed estesi al mondo intero.

Le lingue sono sensi e i sensi sono lingue. Il miracolo delle lingue avvenuto il giorno di Pentecoste in cui ebrei e proseliti, parti, medi, elamiti e abitanti di tanti altri paesi dell’area mediterranea compresero le parole pronunciate da Pietro (At 2,9-11) attualizza, per chi è salito a Gerusalemme, la molteplice unità della Parola.

Il dono dello Spirito – proprio come sarebbe avvenuto per i carismi (cf. 1Cor 12,14) – individua la presenza dell’unità nella molteplicità e della molteplicità nell’unità. Grazie allo Spirito c’è molteplicità senza divisioni e c’è unità senza monolitismo. Ciò avviene anche in relazione alla Parola. Nella tradizione cristiana lo Spirito «che ha parlato per mezzo dei profeti» è sempre stato considerato il primo ermeneuta della Parola da lui stesso rivelata. Essa, partendo da un’origine unica, giunge a tutti custodendo le differenze.

La lettura cristiana della Parola trova il proprio fulcro nell’annuncio di Gesù Cristo morto e risorto. Pietro, nel suo discorso di Pentecoste, proclama e interpreta una serie di passi biblici (cf. At 2,14-39; Gl 3,1-5; Sal 16,8-11; 132,11; 110,1); lo fa alla luce della vicenda pasquale di Gesù. Il dono dello Spirito trasforma quegli antichi versetti in Evangelo rivolto sia ai vicini sia ai lontani (At 3,39; Is 57,19).

Lo Spirito di santificazione all’opera nella risurrezione di Gesù si manifesta ora nel buon annuncio rivolto agli uni e agli altri. Entrambi sono chiamati a rinnovare sé stessi senza per questo perdere memoria della loro provenienza. Simbolo di tutto ciò è la traducibilità della Parola. In virtù dello Spirito le parole di Pietro sono udite da ciascuno nella propria lingua. Il discorso è lo stesso, tutti ascoltano le medesime parole, ma lo fanno per canali linguistici differenti. A Gerusalemme (luogo unico e non interscambiabile) fin dal principio viene legittimata tanto l’unità della fede quanto la pluralità delle culture. Quanto valeva allora, vale anche ora.

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