Pentecoste | Lingue come di fuoco
At 2,1-11; Sal 103 (104); 1Cor 12,3-7.12-13; Gv 20,19-23
Era Pentecoste, vale a dire era il giorno in cui cadeva la festa delle Settimane (Shavu‛ot; Lv 23,15-22), una delle tre ricorrenze annuali in cui si saliva al tempio di Gerusalemme (cf. Es 34,22-23). Il senso primordiale della festa era agricolo, connesso alla gioia della mietitura (nella festa ebraica si legge a tutt’oggi il libro di Rut); a esso si era aggiunto – in un’epoca difficile da precisare – il senso memoriale del dono della Legge (Torah) rivelata dal Signore sul monte Sinai.
Il monte «era tutto fumante, perché il Signore era sceso su di esso nel fuoco» (Es 19,18). Proprio in quel giorno lo Spirito scese sui discepoli in lingue come di fuoco. Secondo Matteo e Luca, Gesù fu annunciato da Giovanni Battista come colui che avrebbe battezzato «in Spirito Santo e fuoco» (Mt 3,11; Lc 3,16). L’opera di Gesù doveva presentarsi come una forma di discriminazione tra giusti e malvagi: «Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con fuoco inestinguibile» (Mt 3,12; Lc 3,16; cf. Ml 3,19). Invece fu un battesimo che si attuò per mezzo della pasqua e dell’annuncio. Gesù, secondo il Vangelo di Luca, dichiara di essere venuto a gettare fuoco sulla terra e di desiderare ardentemente di vederlo acceso, ma sa anche che è lui il primo a dover passare attraverso il fuoco, infatti egli stesso deve ricevere un battesimo e «come sono angosciato finché non sia compiuto» (Lc 12,50). In quella pasqua, in quel battesimo, in quell’esodo (cf. Lc 9,31) vi è l’inizio della via che conduce all’effusione dello Spirito e all’annuncio.
Il giorno dell’ascensione il Risorto aveva promesso ai discepoli un imminente battesimo nello Spirito senza parlare di fuoco (cf. At 1,5). Ora, a Pentecoste, lo Spirito che è soffio e vento scende nel fuoco, assumendo non l’aspetto incandescente di chi brucia ogni malvagità, ma quello di «lingue come di fuoco». Il battesimo degli apostoli è nella lingua, nel fuoco della parola che comunica il buon annuncio (evangelo).
Le «lingue come di fuoco» manifestano subito il loro potere nel miracolo delle lingue, udite e comprese da tutti coloro che, in quanto ebrei della diaspora saliti a Gerusalemme, erano a conoscenza che proprio da quella città doveva uscire la parola di Dio. Il giorno di Pentecoste si parlò una lingua compresa dagli uomini, affinché essi ascoltassero e credessero. Il miracolo delle lingue, grazie al quale ebrei e proseliti, parti, medi, elamiti e abitanti di vari altri paesi dell’area mediterranea compresero le parole pronunciate da Pietro (cf. At 2,9-11), attualizza, per chi è salito a Gerusalemme, la molteplice unità della parola evangelica volta ad annunciare Gesù Cristo morto e risorto.
Da sempre si è visto nel miracolo delle lingue la risposta alla confusione babelica: l’antica torre fu elevata al cielo dagli uomini al fine di non disperdersi sulla terra (cf. Gen 11,4); ora invece gli ebrei e i proseliti disseminati nel mondo abitato salgono a Gerusalemme per udire il messaggio nelle loro lingue native. Dalla periferia si sale verso il centro; da lì però la Parola si espande nelle lingue parlate sia dai popoli sia dagli ebrei della diaspora. Grazie allo Spirito che scende (opposto di una torre che vuole spingersi verso l’alto) unità e pluralità, centro e periferia si sono riappacificati. Il messaggio è uno solo, le lingue però restano molte.