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Restituire sé stessi a Dio

XXIX domenica del tempo ordinario

Is 45,1.4-6; Sal 96 (95); 1Ts 1,1-5; Mt 22,15-21

A volte tutto dipende da una parola. È il caso di Mt 22,21, con la risposta di Gesù che è diventata nel tempo un vero e proprio proverbio, al punto da essere usata non solo fuori del contesto originario, ma anche solo nella sua prima parte «date a Cesare», seguita da ipotetici puntini di sospensione.

Di fatto il testo ha una sua complessità: siamo infatti alla prima di quattro dispute con i più importanti gruppi culturali e sociali dell’epoca sulle materie più dibattute in quel periodo.

Nel testo c’è molto di non detto: essere interpellato da farisei ed erodiani, da sadducei, da un dottore della legge e di nuovo dai farisei è un implicito riconoscimento dell’autorevolezza di Gesù, che viene apertamente dichiarata in Mt 22,16. Ma anche Gesù, con il proverbio del v. 21, dà una risposta aperta che potrebbe essere letta quasi come una domanda.

Disputare mettendo alla prova qualcuno è una delle pratiche normali del giudaismo dell’epoca e di oggi. Lo studio talmudico, specialmente e quasi sempre, non si fa in solitudine, ma almeno tra due condiscepoli o tra discepoli e maestro che s’interrogano reciprocamente e discutono tra loro, ponendo magari dei «casi» per verificare non solo le conoscenze, ma soprattutto l’acume dell’interlocutore. Non a caso un certo tipo di discussione soprattutto di casi giuridici è denominato pilpul, «pepe», perché deve essere «piccante» per stimolare e mettere alla prova la mente.

Nel nostro caso farisei e clientes della dinastia erodiana interpellano Gesù a proposito di un problema fiscale che comporta, in qualche modo, il rischio di schierarsi politicamente in pubblico.

Il sistema fiscale dell’epoca era doppio, complesso ed esoso. Si pagavano tasse alla potenza occupante e al Tempio. Gli occupanti esigevano tasse dirette e indirette: tasse sulla proprietà, le persone, le attività, la compravendita; e poi pedaggi, un sussidio speciale per l’esercito e a volte lavoro forzato. Il Tempio riscuoteva tasse per la manutenzione, per i sacerdoti e per il culto.

La domanda rivolta a Gesù ha un suo anticipo in Mt 17,24ss, in cui si tratta di una tassa per il Tempio; qui invece si tratta della tassa da pagare ai romani occupanti, in vigore dal 6 ev con la moneta recante l’effigie dell’imperatore regnante, in questo caso Tiberio (così Tacito, Ann. XV, 44).

La parola in questione è il verbo apodidomi, che ha il significato di dare una cosa in cambio di un’altra, da «pagare» a «restituire». Perciò il verbo apodote, «restituite», del v. 21 vuol dire che si deve restituire a Tiberio ciò che è suo: la moneta. Ma che cos’è da restituire a Dio? La risposta di Gesù in questo senso è aperta, perché pone agli interlocutori una domanda ben più complessa di quella che essi gli hanno rivolto.

La prima risposta potrebbe essere che essendo l’uomo immagine (eikon, v. 20; cf. Gen 1,26 LXX, eikona) di Dio, l’uomo è l’unica moneta spendibile presso di lui. Quindi: che ognuno restituisca sé stesso tutto intero al suo Creatore.

Ma trattandosi qui di farisei, loro discepoli ed erodiani, per i primi c’è certamente da restituire a Dio sé stessi attraverso la Torah e l’applicazione con cui si dedicano a essa, per i secondi il potere politico e ogni ambizione. Chi abbia letto Giuseppe Flavio sa di quanti e quali intrighi e delitti fossero responsabili la corte e la famiglia erodiana, dal capostipite agli eredi. È da pensare che i loro clientes fossero almeno conniventi; dovrebbero dunque restituire a Dio un’integrità molto difficile da recuperare e ricostruire.

Se la risposta di Gesù comporta una tale domanda non espressa, ma che i suoi interlocutori hanno certamente colto nelle sue implicazioni, s’intuisce perché Matteo non registri nessuna reazione da parte loro. Il dover «restituire» sé stessi a Dio in quanto creati sua immagine è già impegnativo per un pio fariseo, studioso e maestro di Torah, ma lo è tanto più per l’uomo corrotto e ambizioso, per il cortigiano che deve mettersi alla ricerca della propria immagine originaria chissà da quanto dimenticata: quella che Dio aveva in mente al momento della sua creazione.

 

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