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«Se il chicco di grano...»

V domenica di Quaresima

Ger 31,31-34; Sal 50 (51); Eb 5,7-9; Gv 12,20-33

«Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». Questa frase dal carattere sapienziale del Vangelo di oggi è forse tra quelle più conosciute e il cui significato appare ovvio, quasi scontato. Ma è proprio vero che il chicco di grano debba morire per produrre frutto? Non è, invece, proprio il frutto il segno della continuità del chicco che in esso permane?

Lasciamo aperta questa domanda, che riprenderemo successivamente, e concentriamoci su un altro aspetto della frase: la solitudine del chicco. Questa «solitudine» mi fa pensare a un evento realmente accaduto, ovvero alla solitudine di un «chicco», un seme di palma che è rimasto solo per più di duemila anni. Si tratta di un seme ritrovato durante gli scavi a Masada, in Israele, nei pressi del Mar Morto, in pieno deserto di Giuda. Nel 2014, nel kibbutz Ketura, nel Negev, questo seme è stato piantato in terra e, dopo duemila anni di «solitudine», ora ha dato vita a una bellissima palma. Il seme, è vero, non c’è più: si è trasformato in una pianta.

L’idea che questo esempio, e soprattutto il testo evangelico, suggerisce è che ogni «chicco» ha in sé una potenzialità di vita, si potrebbe proprio dire, «compressa» che attende di «esplodere». Ma tale «esplosione» è possibile solo attraverso un itinerario, un percorso di trasformazione che è di per sé una morte, proprio perché è un passaggio da una realtà/condizione a un’altra.

Ecco dunque una prima risposta alla domanda che si era lasciata aperta: il passaggio dal chicco alla pianta/frutto è un passaggio trasformante e, in questo senso, mortale, ma è allo stesso tempo un passaggio in continuità, poiché la pianta che ne deriva è l’«esplosione» di quel chicco/seme. 

Sullo sfondo del testo evangelico, ma anche della nostra riflessione, c’è l’elemento «morte». Una morte ineludibile, inevitabile davanti alla quale siamo chiamati a prendere posizione: «Chi ama la propria vita, la perde; chi odia la propria vita, la ritrova». Così, paradossalmente, è proprio l’idea o il tentativo di «preservarsi», di rimanere in una determinata condizione di «esistenza» ciò che risulta davvero mortale. Più si cerca di evitare la morte, a qualsiasi livello, e più, di fatto, si muore.

La vita è di per sé un «divenire»: ogni giorno, ogni mese, ogni anno assistiamo a una trasformazione continua del nostro corpo, a tratti più percettibile, come può essere la crescita di un neonato nell’arco di pochi mesi, a volte più lenta, come il passaggio da un’età adulta verso la vecchiaia. Il punto, allora, è come vivere questa trasformazione inevitabile, come affrontare questa «morte» perché possa essere vita. Forse proprio con l’accogliere la fine – la morte fisica – come condizione ineludibile di vita, la morte come «sorella» e compagna di vita.

E se si ama la vita allora non ha senso «preservarla» dalla morte, perché questo è «perdere la vita», ma ha senso accogliere e aderire alla vita, lasciando che «quel chicco» muoia per trasformarsi in pianta. E questo può accadere solo se quel «chicco» accetta di donarsi pienamente, di lasciarsi trasformare dalla terra, dall’acqua, dal sole e dall’amore di chi lo ha piantato. Solo così potrà diventare una pianta. 

C’è in tutto questo da una parte la presenza attiva dell’«alterità» (terra, acqua sole, coltivatore), che offre al «chicco» la possibilità di uscire dalla propria solitudine, e dall’altra la scelta che il «chicco» fa del dono di sé, del «morire» per nascere, accettando di trasformarsi, rinunciando al suo «stato», alla sua fissità e, non in ultimo, alla sua solitudine e al suo vuoto.

Se tutto ciò vale per un «chicco», per ciascun essere vivente, ancor più vale per un essere umano e anche per la stessa comunità dei credenti, per la Chiesa. Il vuoto, la solitudine che le nostre chiese oggi manifestano ricordano quel «chicco» e la sua solitudine, il rischio del ripiegamento e della chiusura espresso anche dal tentativo di arroccarsi saldamente su un’idea di tradizione che in realtà è espressione solo di una paura – mascherata maldestramente – di perdita di potere e visibilità.

Dietro vi è l’idea di pensare che ciò che è stato sia meglio di ciò che sarà, e così il nostro sguardo è sempre ancorato al passato e incapace di volgersi verso le possibilità che il futuro ci può offrire. Ma è proprio l’accoglienza della morte ciò che apre al divenire, alla trasformazione e alla pienezza di vita. Per questo costantemente il Vangelo ci chiede di «convertirci», di volgere lo sguardo «perché il Regno dei cieli è vicino».

Accettare di morire è l’unica possibilità di vivere veramente, di permettere che il seme si trasformi nella pianta che è già in sé: «Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore. Quanto a ciò che semini, non semini il corpo che nascerà, ma un semplice chicco di grano o di altro genere» (1Cor 15,36).

E tutto questo apre all’attesa e alla meraviglia di vedere quello che «questo chicco» sarà.

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