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Sesso e potere: il coraggio della denuncia

La presa di parola pubblica delle vittime di pedofilia e delle donne che subiscono abusi e ricatti sessuali destabilizza e suscita reazioni scomposte, perché interrompe le inique regole del gioco e fa sì che niente possa più essere come prima. Per questo è necessaria.

Quando, nel gennaio 2010, Klaus Mertes, rettore del Collegio dei gesuiti di Berlino, ebbe il coraggio di rendere pubblici i casi di pedofilia che nel corso del tempo si erano verificati all’interno della sua scuola, lo shock è stato grande. Grande e salutare. Ormai, nella diga di omertà che proteggeva all’inverosimile l’orribile devianza che portava il clero ad abusare di bambini e di ragazzi che frequentavano oratori e scuole cattoliche era stata aperta la prima grande breccia.

A partire dalle vittime

Ha così avuto inizio quell’inondazione che continua a travolgere la Chiesa cattolica, con ripetitività agghiacciante in tutti i paesi del mondo, sollevando il velo sui danni causati dalle strategie messe in campo per la formazione del clero, ma anche da una a dir poco distorta valutazione della sessualità umana.

È pur vero, però, che l’unica istituzione che ha dato prova di voler affrontare il fenomeno degli abusi sui minori che affligge l’intero pianeta è la Chiesa cattolica, a cui, in realtà, ne viene statisticamente imputata solo una percentuale minima. Potrebbe sicuramente farlo meglio, le resistenze e gli errori sono troppi e, a volte, ancora molto gravi, ma le denunce hanno ingenerato un circolo virtuoso che, insieme a comprensibili paure, induce anche nuove forme di consapevolezza e nuove pratiche di convivenza tra i sessi e le generazioni.

Anche se sembra ormai inevitabile che durante ogni viaggio apostolico i pontefici debbano fronteggiare un doloroso confronto con vittime di violenza, anche se le forze messe in campo per contrastare il fenomeno sono spesso inadeguate, anche se sembrano inestirpabili forme di dolosa resistenza, anche se tutto questo lascia pensare che la piaga non verrà mai sanata, la dolorosa litania delle denunce impone, giorno dopo giorno, di fare i conti con la questione nodale dello stretto legame tra sesso e potere.

Certo, non è la prima volta che se ne parla, ma è la prima volta che se ne parla a partire dalle vittime perché la narrazione di qualcosa di antico come il mondo, appunto il rapporto sesso-potere, si apre con il coraggio di una denuncia: quanto avviene non è più scontato, ma impone di sovvertire logiche patriarcali nei confronti dei più piccoli.

Una spinta rivoluzionaria

Ancora più recentemente, un’altra denuncia è diventata virale. Perché mentre alcuni si perdevano nei rivoli dei mille distinguo sulla sua opportunità o sulla credibilità di chi per prima l’ha lanciata, il movimento #Metoo ha preso corpo e, come un fiume in piena, ha messo in crisi quella che veniva considerata una “regola del gioco” che da sempre governa il rapporto sesso-potere.

Il governo inglese ha tremato. Il direttore de La Stampa, Maurizio Molinari, ha scritto:

«Chiunque sbarchi in una qualsiasi città d’America in questo inizio di 2018 si trova immerso in una rivoluzione dei costumi che riguarda i diritti civili di tutti i cittadini: la battaglia delle donne per far cessare gli abusi, di ogni tipo, nei loro confronti. È un’atmosfera che si respira ovunque: nei tribunali dove fioccano le denunce contro i molestatori, sui media dove dilagano le testimonianze più dettagliate, nelle cene fra amici dove si discute di vittime e colpevoli, dentro le aziende che studiano regolamenti più rigidi ed anche nelle sale cinematografiche dove Meryl Streep in The Post strappa applausi e lacrime come modello di leadership femminile per guidare l’America nella giusta direzione. La sensazione, forte e condivisa, è che la battaglia delle donne – iniziata contro gli abusi ma di impatto assai maggiore ‒ possa contribuire a rendere l’America un posto migliore».

E, mentre il governo canadese già prevede una divisione delle poltrone per sesso assolutamente equilibrata e l’Islanda ha reso illegale pagare gli uomini più delle donne per uno stesso lavoro, perfino il World economic forum di Davos si è adeguato chiamando sette donne a dirigere la sua 48° edizione, in cui si è discusso anche di molestie sessuali e del movimento #Metoo. In Italia, proprio in questi giorni anche molte donne dello spettacolo hanno alzato con forza la loro voce.

In un mondo come quello attuale, l’arma della denuncia può favorire spinte rivoluzionarie. Sempre è stato così, certo. Ce lo hanno insegnato il Mahatma Gandhi e Rosa Parks, per ricordare soltanto due dei personaggi: negli ultimi 70 anni, la loro denuncia ha segnato momenti di passaggio epocale nella storia dei diritti umani. Oggi, però, le denunce possono diventare globali. E, soprattutto, nessuno aveva attaccato al cuore il patriarcato mettendo in discussione la più radicale delle schiavitù, quella sessuale.

La lunga gestazione di una nuova coscienza

È vero, siamo solo agli inizi, e la convinzione che, attraverso il sesso, alcuni abbiano il diritto di esercitare il potere sui più deboli è stata solo scalfita. Lo mostrano le reazioni di chi si erge, in un modo o nell’altro, a difesa del sistema: che siano uomini di Chiesa che presumono che la santità del corpo di Cristo venga preservata insabbiando le denunce o uomini e donne che fanno finta di non saper distinguere tra corteggiamento e sopraffazione, tutti dimostrano che, ormai, nulla può essere più come prima.

Da tempo, d’altra parte, il femminismo ha svelato che oggi la rivoluzione non può che passare attraverso una nuova coscienza riguardo a tutto ciò che attiene alla differenza sessuale. Devono finalmente diventare patrimonio comune parole come quelle pronunciate a Davos dal famoso attore indiano Shah Rukh Khan mentre accettava il crystal award del Forum, concessogli per le sue campagne per i diritti dell’universo femminile: «Ringrazio mia sorella, mia moglie e mia figlia per avermi fatto capire l’onore di implorare e battersi per il “sì” di una donna».

 

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