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Settanta volte sette

XXIV domenica del tempo ordinario

Sir 27,33-28,9; Sal 102 (103); Rm 14,7-9; Mt 18,21-35 

Nel brano evangelico di questa domenica continua la riflessione sul tema del «perdono». Questa volta al centro dei riflettori c’è il «creditore», cioè colui che ha prestato, anticipato un bene e può subire il torto di non vederselo restituire.

L’argomento viene presentato tramite un racconto, una storiella che vede coinvolti un re e un suo servo. Anche in questo caso i personaggi – come i «fratelli» della scorsa domenica – sono legati insieme da una relazione, da un rapporto che, seppur non sullo stesso piano, li pone in connessione. Il servo deve al re una somma di denaro abbastanza ingente che non è in grado di restituire e il pericolo immediato, stando all’ordine del re, è che per saldare tale debito venga venduto come schiavo insieme all’intera sua famiglia, moglie e figli. La sua richiesta insistente, però, di avere pietà di lui e di concedergli altro tempo, induce il padrone a condonargli il debito.

Dietro a questo gesto vi è l’immagine di un re buono, capace di andare oltre i propri stretti interessi e soprattutto capace di vedere l’«altro», di mettersi «nei suoi panni» e di rinunciare a quanto dovutogli «per» il bene dell’altro. Anche in questo caso la domanda alla base è: cosa vale di più? Il risarcimento del credito/torto dovuto o il «bene-essere» dell’altro? Di fatto recuperare il credito significherebbe anche perdere il servo e il re preferisce rinunciare al denaro e mantenere il proprio servo.

Ma il gesto edificante del re, e soprattutto il messaggio in esso racchiuso, non vengono compresi e nemmeno fatti propri dal servo debitore. Anche i debitori, infatti, possono essere a loro volta creditori verso qualcun altro e il problema è la «scarsa memoria», o addirittura la cancellazione nella propria coscienza di quanto si è «gratuitamente» ricevuto, soprattutto del senso di quell’essere stati «per-donati». Ed è questo il nostro caso: dimentico di quanto aveva «gratuitamente» ricevuto, il servo graziato dal re, di fronte al suo debitore, si accanisce contro di lui senza pietà e lo fa rinchiudere in prigione.

Essendo venuto a conoscenza dell’accaduto il re non può far altro che richiamare quel servo che non aveva saputo agire con la stessa «gratuità» ricevuta e renderlo, cosa molto interessante, un debitore «perenne»: «Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto»; dato che – ieri come oggi – è molto difficile pensare che «in mano a degli aguzzini» costui sia riuscito a estinguere il proprio debito.

Dal racconto si evincono alcuni elementi su cui riflettere. Al centro, come si è visto, non ci sono debiti, crediti e norme correlate, ma la «gratuità», il «per-dono». Per essere capaci di «per-donare» bisogna aver fatto l’esperienza di essere perdonati, bisogna essere consapevoli che tutti noi per primi, in quanto debitori, siamo stati gratuitamente «per-donati», che abbiamo o avremo ancora tutti bisogno di perdono (nessuno è perfetto!), che abbiamo tutti ricevuto gratuitamente un «dono», e un dono speciale.

Il perdono, infatti, è sempre un «dono-per», un dono che apre agli altri, che è per gli altri; un dono che è tale solo se si permette che altri a loro volta lo ricevano. Una delle caratteristiche fondamentali del perdono è proprio la sua «proprietà transitiva». Non si dona solo «qualcosa» a «qualcuno», ma questo «qualcosa» donato – nel racconto l’abrogazione del debito — fa sì, dovrebbe far sì, che questo «qualcuno» sia in grado di «donare» nello stesso modo, che il debitore in qualità di creditore sia in grado, abbia la «compassione» per condonare il debito a un altro.

L’esperienza infatti dell’essere stati perdonati non è solo qualcosa che ha a che fare con la nostra memoria, con il nostro intelletto, ma è qualcosa che abbraccia tutto il nostro essere e coinvolge e trasforma il nostro cuore.

Ecco allora il senso della risposta alla domanda che Pietro fa a Gesù all’inizio di questa pagina evangelica: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte? E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”». E l’espressione «settanta volte sette» indica un numero infinito, come infinito è il numero di possibilità di essere perdonati che ciascuno di noi vorrebbe.

Commenti

  • 16/09/2023 Don Rosario Spanò

    Ester Abbattista, grande Teologa, commenti di inestimabile valore teologico col tocco della sapienza femminile. Grazie. Don Rosario Spanò.

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