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Tornare a Gerusalemme

S'infiamma nuovamente Gerusalemme, ma dietro al dibattito politico c'è una realtà teologica sulla città santa che i cristiani rischiano di dimenticare.

S’infiamma di nuovo Gerusalemme, ferita ancora una volta da logiche unilaterali. Ma dalle stanze del Patriarcato latino, nel cuore della Città vecchia, arriva chiaro l’invito a non fermarsi alle discussioni sulle bandiere e sui confini: «E vale prima di tutto per noi cristiani – commenta mons. Pierbattista Pizzaballa –. Da quanto tempo non ci chiediamo più: che cos’è per noi Gerusalemme?».
In forza della sua lunga esperienza da custode di Terra Santa, nel giugno 2016 è stato scelto da papa Francesco per traghettare la locale Chiesa latina, alle prese con un momento difficile, dopo la fine del mandato del patriarca Fouad Twal (cf. Regno-att. 12,2016,331). Così da amministratore apostolico mons. Pizzaballa oggi si trova a fare i conti anche con la concretezza delle questioni politiche sollevate dalle dichiarazioni e dagli scontri di questi giorni.
Alla vigilia del contestato annuncio di Donald Trump sul riconoscimento ufficiale di Gerusalemme come «capitale di Israele», ha firmato insieme agli altri leader delle Chiese locali un appello per mettere in guardia la Casa Bianca da passi che potrebbero far «crescere l’odio, il conflitto, la violenza e le sofferenze di Gerusalemme».
L’8 dicembre poi – mentre puntuale questo scenario si materializzava – il Patriarcato latino ha diffuso una propria nota che, insieme alla preoccupazione per questo momento, indica una posizione molto chiara. «Gerusalemme è un tesoro dell’intera umanità – vi si legge –. Ogni rivendicazione esclusiva, sia essa politica o religiosa, è contraria alla logica propria della città. La discussione non può essere ridotta semplicemente a una disputa territoriale o di sovranità politica, perché Gerusalemme è un unicum, è patrimonio del mondo intero, ha una vocazione universale che parla a miliardi di persone nel mondo, credenti e non».
Proprio questo unicum, però, comporta una responsabilità speciale anche per i cristiani: chiede ben più di un generico appello alla riconciliazione, come l’amministratore apostolico del Patriarcato latino spiega in questa intervista a Il Regno.


– Monsignor Pizzaballa, nella dichiarazione del Patriarcato si dice che lo Status quo – il meccanismo di regole che dovrebbe garantire gli equilibri tra le comunità religiose delle tre fedi e tra le due parti della città – a Gerusalemme «è già stato intaccato da tempo». In che modo?
«Com’è scritto in quel testo, la salvaguardia del carattere sacro di Gerusalemme non può limitarsi a singoli siti o monumenti, presi separatamente rispetto alle loro comunità. Coinvolge Gerusalemme nella sua interezza, tocca i Luoghi santi ma anche gli ospedali, le scuole, le attività di carattere culturale e sociale di ogni comunità. Tenerne conto non impedisce a Gerusalemme di diventare il simbolo nazionale dei due popoli che la rivendicano come propria capitale.
Ma potrà avvenire solo attraverso un accordo reciproco che preservi il carattere universale della città. Gerusalemme – abbiamo detto – deve restare il luogo nel quale ebrei, cristiani e musulmani continuano a incontrarsi lungo le vie della Città vecchia, ciascuno con la propria mentalità e tradizioni, legate in modo così unico le une alle altre. E questo è incompatibile con soluzioni unilaterali».

Le minacce al territorio della città

– I cambiamenti in corso a Gerusalemme minacciano tutto questo?
«Gerusalemme è una città che continua a cambiare, sotto tutti i punti di vista: sta cambiando il panorama della città, cambia la vita reale, cambiano le relazioni tra le comunità, cambiano gli equilibri demografici. I numeri in questo senso sono importanti; e quelli sui cristiani dicono che in una città di 850.000 abitanti come è oggi Gerusalemme i cristiani locali sono ormai meno di 10.000, la metà dei quali di rito latino».


– Nei mesi scorsi c’è stata anche un’altra dichiarazione forte di voi capi delle Chiese sui problemi legati alle proprietà immobiliari dei cristiani a Gerusalemme.
«Quella è una storia complessa. È legata a un’operazione compiuta dal Patriarcato greco su alcuni suoi terreni concessi negli anni Cinquanta in leasing al Jewish National Fund per cent’anni. Si tratta di aree dove sono state realizzate opere (persino la Knesset sorge su uno di questi terreni) e dunque non torneranno mai indietro. Così il Patriarcato greco ha deciso di cedere i diritti a una società ebraica privata. Questo però ha spaventato le autorità israeliane che ora avranno di fronte un altro soggetto con cui trattare.
Da qui è nato un disegno di legge sulle proprietà cristiane che tocca non solo il Patriarcato greco ma tutte le Chiese e limita in maniera forte la nostra libertà nelle compravendite. Contemporaneamente è arrivata una sentenza su un’altra vicenda, del tutto indipendente; una cessione di due alberghi nella zona della Porta di Jaffa che risale addirittura al 2005.
Lì il Patriarcato greco sostiene di essere stato truffato con una vendita fraudolenta, in favore di una realtà legata alla destra ebraica. Il giudice ha respinto il suo ricorso e anche questo è diventato un caso politico. Ora: io capisco che a Israele dia fastidio dover rinegoziare gli accordi; e anche poter trovarsi a trattare con una società privata l’affitto della Knesset non è un fatto normale, lo comprendo.
Però una legge che colpisce intenzionalmente le Chiese cristiane è inaccettabile. La nostra dichiarazione ha creato tensione, ma non potevamo certo stare zitti. Va aggiunto inoltre che nella comunità ortodossa c’è un forte movimento contro il patriarca greco su queste operazioni immobiliari, ne contestano l’opportunità».


– In questa polemica le Chiese di Gerusalemme stanno dalla parte del patriarca Teofilo?
«Non l’abbiamo nemmeno voluto discutere. Questo è un momento in cui le Chiese devono essere unite. Punto. Però a me pare che il tema Gerusalemme sia comunque più ampio di tutti i discorsi su capitali, confini, immobili, terreni. E mi piacerebbe che anche la Chiesa cattolica ne fosse più consapevole».

La Chiesa non si chiede più che cos’è Gerusalemme

– In che senso?
«Negli ultimi quindici o vent’anni non ricordo d’aver mai sentito un discorso complessivo su che cosa rappresenti Gerusalemme per noi. Si parla della Gerusalemme celeste, ma poco di quella terrena. Non penso al punto di vista politico: voi giornalisti mi chiedete sempre di israeliani e palestinesi, occupazione, il muro... Ma la domanda vera da porci oggi è: perché come Chiesa ci interessa ancora Gerusalemme? A me pare che stiamo scontando la mancanza di una riflessione seria di questo tipo».


– Uno sguardo complessivo per dire che cosa?
«La Chiesa deve ritrovare Gerusalemme come topos, come luogo non solo dello spirito. In questa fase di ripensamento sul proprio essere comunità, sul tipo di testimonianza che dobbiamo offrire, dovremmo tutti tornare a Gerusalemme. Che cosa significa per i cristiani? In che senso diciamo che è la Chiesa madre?
Da tutti i punti di vista: spirituale, teologico, liturgico, con uno sguardo certamente rivolto anche alla città di oggi e alle sue ferite. Ma senza limitarsi ad affermazioni generiche: anche la riflessione politica va inserita in un discorso in cui ci diciamo perché per noi ciò che succede qui è importante. E che la sorte di questa città non è una questione solo ebraica e musulmana.
Si tratta di un ginepraio delicatissimo, lo so bene; sono il primo a dire che bisogna parlarne con attenzione, evitare affermazioni generiche che fuori contesto vengono interpretate a favore dell’uno o dell’altro. Ma dobbiamo chiedercelo: perché continuiamo a venire qui? Ci sarà un motivo al di là di un certo devozionismo un po’ sofisticato».


– Intanto sta cambiando anche il pellegrinaggio a Gerusalemme...
«Sì, e profondamente. Quando arrivai – ormai 28 anni fa – il 90% dei pellegrini cattolici venivano dall’Europa occidentale; oggi sono scesi al 50%. L’altra metà viene dal resto del mondo: Stati Uniti, Asia, un po’ di America Latina.
Prima il pellegrinaggio cattolico era prevalente su quello ortodosso; oggi è il contrario. E quello cattolico è in gran parte turismo religioso, poco pellegrinaggio. Dai dati di chi celebra messa nei santuari risulta che dopo gli Stati Uniti il primo paese per pellegrini cattolici è l’Indonesia.
Cina e India raddoppiano ogni anno il numero di persone, l’Europa continua a scendere. Il che va anche bene, il pellegrinaggio deve essere universale; ma dobbiamo esserne consapevoli. L’Italia? Dopo il calo degli ultimi tempi quest’anno c’è stata un po’ di ripresa; ma ho l’impressione che gli effetti della secolarizzazione comincino a vedersi anche su questi numeri».


– La crescita dei pellegrini ortodossi che cosa ha portato a Gerusalemme?
«Ci mostrano un altro modo di vivere il pellegrinaggio, meno intellettuale rispetto a quello cattolico. Si fermano di più nei Luoghi santi, hanno un senso maggiore della preghiera. A parte qualche eccezione, la nostra oggi è più una visita con un momento di preghiera che un pellegrinaggio. Sono anche diversi i modi di pregare e di vivere la fede».
– Con i pellegrini ortodossi Gerusalemme sta diventando un laboratorio ecumenico?
«Lo è sempre stato. Al di là delle questioni istituzionali tra le Chiese, qui è la vita della gente a chiederlo; nelle famiglie cristiane le appartenenze sono mischiate. L’ecumenismo da noi non è un problema teologico ma una sfida pastorale. Il calendario tocca la vita delle famiglie: quando fare Pasqua, quando celebrare il Natale, gli stessi approcci diversi al tema delle separazioni. Non è l’iniziativa di qualche leader religioso: parlarsi è necessario».

L’ecumenismo necessario

– Sul calendario il Patriarcato latino aveva sperimentato qualche anno fa lo spostamento della Pasqua nella data del calendario giuliano per celebrarla insieme.
«Vivendo in Terra Santa ci si rende conto di come non esistano formule magiche: le divisioni avvenute tra le Chiese non rientrano per decreto. L’anno che si è unita la Pasqua con gli ortodossi c’erano 5 settimane di differenza: a Nazaret i pellegrini facevano Pasqua mentre per la comunità locale era ancora l’inizio della Quaresima; separiamo il Santo sepolcro da tutto il resto?
Qualunque scelta lascia fuori qualcuno. Alla fine si è deciso che le comunità decidano autonomamente: nelle zone interne la celebrano insieme agli ortodossi. Nelle grandi città, dove il legame con i pellegrini è più forte, si segue il calendario gregoriano».

– Allargando lo sguardo oltre Gerusalemme, anche nel resto del Medio Oriente le tensioni restano tante: non fa a tempo a chiudersi la ferita della Siria che rischiano di aprirsene altre...
«Sì, oggi è difficile capire. Sono ben contento che questa fase della guerra in Siria sia finita e il mostro dell’ISIS almeno qui appaia sconfitto. Però pensare che la guerra tra sunniti e sciiti potesse essere finita così era illusorio. Le variabili restano tante: che cosa faranno veramente Teheran e Riyad e i loro alleati? Quanto saranno disposti a continuare quelli che sul terreno sono la vera carne da macello? E poi la Russia, che adesso ha un po’ in mano la leadership, quanto è disposta a sostenere l’uno contro l’altro? Mi auguro voglia passare per chi ha ricostruito un equilibrio».


– Teme un nuovo conflitto in Libano?
«È il ventre molle della regione. In Libano di certo nessuno ha voglia di una nuova guerra civile. Credo e spero che lo scontro resti politico ed economico, come sta accadendo. Però ci può sempre essere la scintilla che innesca l’incendio. È difficile fare previsioni».


– Un altro paese dagli equilibri delicati è la Giordania, da anni alle prese con la massiccia presenza dei profughi.
«Per il momento la Giordania regge, anche perché a nessuno conviene che salti, ma la situazione anche lì è difficile: un paese con quasi 3 milioni di profughi – tra iracheni e siriani – su 7 milioni di abitanti. Ci si chiede: torneranno nei loro paesi? Chi non avrà alternative probabilmente sì; ma lo farà per disperazione. Chi potrà, invece, andrà altrove.
Ero in una scuola di profughi iracheni a Marka (un distretto di Amman storicamente rifugio per i profughi fin dal 1967; ndr). Nella mia ingenuità ho chiesto alle insegnanti, anche loro profughe irachene, quali programmi scolastici utilizzassero: giordani o iracheni? Si sono messe a ridere e mi hanno risposto: facciamo tutto in inglese, si devono abituare... Sono lì di passaggio. Certo c’è anche chi è ad Amman da 15 anni; ma sono comunque in lista d’attesa per i visti negli Stati Uniti, in Canada, in Europa. Del resto in Giordania non possono ottenere la cittadinanza, non possono lavorare ufficialmente, guadagnano qualcosa in nero per mantenersi. Come si può pensare di costruirsi una vita così?».

Il Patriarcato latino: servizio e ascolto

– Lei è stato scelto dal papa come amministratore apostolico un anno e mezzo fa in una situazione di crisi per il Patriarcato. Come vede la situazione oggi?
«Il primo è stato un anno di ripensamento forte, di visite, incontri, soprattutto con il clero. Questa fase ha portato alla lettera al Patriarcato in cui parlavo delle difficoltà amministrative ma anche della necessità di trasformare questa crisi in un’opportunità. Poi a giugno ci sono stati i cambiamenti tra i vicari e gli uffici di curia, adottati dopo essere stati discussi ampiamente. Ora bisognerà affrontare in maniera decisa le questioni amministrative».


Da dove sta cercando di ripartire il Patriarcato latino?
«Arrivando ho detto: siamo dove siamo, smettiamo di piangerci addosso e cerchiamo di capire che cosa il Signore ci chiede in questa circostanza. Non si tratta semplicemente di trovare finanziamenti per fare fronte ad alcuni debiti, ma di puntare su ciò che è essenziale: il servizio alla nostra gente.
Naturalmente restano tante domande. La nostra è una Chiesa complicata: 4 zone pastorali, Giordania, Israele, Palestina e Cipro, molto diverse una dall’altra. Anche dentro Israele, poi, c’è la comunità araba, c’è la comunità ebraica, ci sono i migranti. Non possiamo andare avanti come abbiamo sempre vissuto: fermiamoci un attimo e cerchiamo di capire».


– I migranti cattolici che affollano le chiese sono uno dei volti nuovi del Patriarcato.
«Vale per le comunità in Israele, ma bisogna vedere quanto e chi resterà. Comunque oggi ci sono ed è compito della Chiesa servire queste persone; legali o illegali è irrilevante dal punto di vista pastorale. Questa presenza cambierà la nostra Chiesa? È difficile dirlo. Ci saranno sempre lavoratori stranieri: Israele ne ha bisogno. Però penso che resterà una presenza con un forte ricambio, non saranno le stesse persone. È vero anche che le situazioni cambiano un po’ a seconda delle provenienze».


– Che cosa dirà al patriarca latino che verrà dopo di lei?
«Di non avere fretta e di ascoltare molto. Gli dirò anche di non occuparsi troppo di politica: qui finisce sempre per inquinare tutto. Ma soprattutto gli dirò di dare speranza a questa gente: hanno bisogno di questo, credere che è possibile restare».


– E a Pierbattista Pizzaballa quel giorno Gerusalemme che cosa lascerà?
«Tantissimi legami belli, ricchi, fecondi. Anche delle ferite: una terra ferita non ti lascia indifferente. Però Gerusalemme mi ha dato tanta passione, questo sì. È una terra e una Chiesa dove la stanchezza è tanta; ma trovi passione. Questo è un dono grande».


a cura di
Giorgio Bernardelli

Commenti

  • 19/12/2017 niccacci@yahoo.it

    Magnifico Mons. Pizzaballa, un felice servizio per Gerusalemme, ogni bene, Dio sia con te :)

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