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Un «giogo» di ampio respiro

XIV domenica del tempo ordinario

Zc 9,9-10; Sal 144 (145); Rm 8,9.11-13; Mt 11,25-30

Nel Vangelo di oggi Gesù invita attorno a sé tutti coloro che sono «stanchi e oppressi» e offre loro uno speciale, e allo stesso tempo alquanto strano, ristoro: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita». 

Che cos’è questo «giogo» e in cosa consiste? Per comprendere le parole di Gesù bisogna ricorrere alla rivelazione biblica che lo precede, e a cui egli stesso fa riferimento. Il termine «giogo», oltre a intendere ciò che lega o unisce insieme una coppia di animali, come due buoi per arare, indica anche l’asta di una bilancia a due piatti e, nel nostro testo, è più verosimile che sia questa l’idea sottesa.

L’invito è quindi a prendere «la bilancia di Gesù», intesa ovviamente non in senso materiale, ma come criterio di giudizio. Nel libro dei Proverbi troviamo infatti questa affermazione: «La stadera e le bilance giuste appartengono al Signore, sono opera sua tutti i pesi del sacchetto» (Pr 16,11); il discorso, quindi, verte sul giudizio, sulla capacità di giudicare, di valutare la realtà, le situazioni, ciò che accade e noi stessi.

Gesù ci invita quindi a prendere il suo giogo, cioè ad assumere il suo criterio di giudizio, che non è fondato sull’orgoglio, sulla condanna o sul rispetto ottuso e rigido di una norma, ma al contrario è «dolce» e «leggero», frutto di chi è «mite e umile di cuore». Per capire ulteriormente come possa un giudizio essere «dolce e leggero» è utile tenere presente queste altre parole di Gesù: «Con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi» (Mt 7,2).

A questo punto è chiaro che l’unico vero giudizio è quello «a prova d’amore», ovvero fondato, valutato, e in questo caso potremmo proprio dire «pesato», sull’amore; amore che, per continuare la metafora, è l’unico «ago della bilancia».

È comprovato che un neonato senza amore non vive, non cresce, non impara a camminare, a parlare, rimane limitato in tutto il suo essere. Occuparsi del mondo degli affetti, cercare di comprendere i bisogni, le istanze e la complessità dell’amore umano è quindi di vitale importanza, è un servizio reso a tutti e se, poi, questo è fatto a partire dalla rivelazione biblica e teso alla crescita della comprensione vitale della fede nella comunità dei credenti, diventa un servizio ecclesiale, prezioso e quanto mai necessario perché ogni comunità in cammino sappia accogliere e riconoscere le molteplici realtà dell’amore che animano e sostengono la vita dei singoli credenti.

Purtroppo, però, ancora oggi avventurarsi su tali questioni può essere pericoloso e si rischia di ritrovarsi sulle spalle un «giogo» non «mite e leggero», ma pesante e limitante imposto da chi, forse, non ha ancora conosciuto o ben compreso che cosa significa la «mitezza» e «l’umiltà di cuore». Due aspetti e qualità, in verità, difficili da declinare, da dispiegare.

Quando si parla di mitezza si pensa subito a qualcuno che non si arrabbia, che non s’impone, che non utilizza il proprio potere per far prevalere le proprie idee e convinzioni tacitando l’«altro», chiunque egli sia. Così anche l’«umiltà di cuore» può essere intesa come quell’attitudine all’apertura verso l’altro, verso chi la pensa in modo diverso, a partire dalla consapevolezza che la verità non la si possiede, non è appannaggio solo di qualcuno.

Senza questa «mitezza», senza questa «umiltà di cuore» non ci può quindi essere dialogo, ricerca, crescita, vita, ma solo chiusura, cecità e, di conseguenza, morte. Spetta dunque a ciascuno di noi decidere a quale tipo di giogo vogliamo sottostare, ricordandoci però sempre che con il giudizio con il quale giudichiamo saremo giudicati e con la misura con la quale misuriamo saremo misurati.

E questo vale in ogni ambito del nostro vivere, del nostro agire e del nostro valutare e decidere. 

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