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Una regalità di sottomissione

Con questo commento si conclude il percorso triennale, durante il quale il biblista e studioso di ebraismo Piero Stefani ha meditato le letture festive per i nostri lettori. Lo salutiamo e ringraziamo con affetto e riconoscenza, mentre diamo il benvenuto a suor Stefania Monti, biblista e monaca clarissa cappuccina, che subentrerà dalla prossima settimana, con il nuovo anno liturgico. Anche a lei va il nostro saluto e il nostro ringraziamento per aver accolto questo compito.

 

Solennità di Cristo re

2Sam 5,1-3; Sal 122 (121); Col 1,12-20; Lc 23,35-43 

Celebrare «nostro Signore Gesù Cristo re dell’universo» con una scena ambientata sul Calvario non è fonte di sbigottimento per chi crede che la croce di Gesù «vero Dio e vero uomo» costituisca la definitiva vittoria sul male.

La liturgia del Venerdì santo per secoli propose un inno (tuttora in uso nei vespri del tempo di quaresima) di Venanzio Fortunato, Vexilla regis prodeunt. La croce è il vessillo del re. Lo è perché (come si legge nella versione completa dell’inno): «Regnavit a ligno Deus». In che consista questa regalità lo dicono altri versi: «O croce beata che apristi / le braccia a Gesù redentore, / bilancia del grande riscatto / che tolse la preda all’inferno».

Sulla scorta di questo riferimento va compreso anche il verso dantesco in cui Virgilio per additare il centro del regno satanico proclama: «Vexilla regis prodeunt inferni». Con questa drammatica parodia comincia il XXXIV canto dell’Inferno, l’ultimo; così come XXXIV e ultima è questa domenica dell’anno liturgico (e più modestamente, ultimo è anche il mio commento che chiude un percorso triennale).

Dante situa nel punto più basso dell’universo Lucifero, eternamente sconfitto. Nel Vangelo di Luca (cf. Lc 23,35-43) si respira un’aria tutta diversa da quella fin qui evocata. Ai nostri giorni, vale a dire in un tempo nel quale la vittoria sugli inferi non è più pensabile nelle modalità contenute nell’inno, a renderci turbati è la volontà di celebrare ancora un titolo (reso festa liturgica solo nel 1925) non corrispondente al significato profondo messaggio evangelico. Non lo è anche se, ormai tramontato l’idea di pensarlo, come voleva Pio XI, nell’orizzonte della società, lo si proietta in qualche forma di regalità universale.

Persino quando è vista in chiave escatologica la regalità del Figlio sta nel consegnarla e non già nell’esercitarla in prima persona. Ciò vale anche quando sarà conseguita la definitiva vittoria sull’ultimo nemico: «È infatti necessario che regni finché non abbia posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi [...] E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,25- 28). La più alta regalità di Gesù Cristo sta nella sottomissione.

In Luca il clima non è questo; tuttavia è vero che anche qui Gesù non è incentrato su se stesso. Già crocifisso, Gesù prega il Padre di perdonare coloro che lo condannano a morte perché non sanno quello che fanno (cf. Lc 23,34). Prega il Padre, non perdona in prima persona. La preghiera, tuttavia, non produce alcun pentimento nell’animo degli astanti; i capi giudaici, i soldati romani, il malfattore non pentito ripetono tutti le stesse parole: «Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto» (Lc 23, 35); «Se tu sei re dei Giudei, salva te stesso» (Lc 23,37); «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi» (Lc 23,39).

La missione affidata a Gesù non è però di salvare se stesso. Lo comprende subito il «buon ladrone». Le sue parole dapprima sono un rimprovero rispetto al «noi» pronunciato dal compagno malfattore, che vuole uguagliare la propria condizione a quella dell’innocente ingiustamente punito (Lc 23,41); poi il tono muta, il ladrone ora si rivolge con un autentico «tu» a colui che gli sta morendo accanto, lo fa abbandonando il titolo («Cristo») per impiegare, lui solo, il nome proprio: «Gesù, ricordati di me quando entrerai [alla lettera “verrai” nel tuo regno».

La salvezza è proiettata dal ladrone penitente nell’avvenire. Gesù risponde a questa vocazione con un «oggi». Lo fa ricorrendo alla rara parola «paradiso»; realtà situata da Paolo nel terzo cielo (cf. 2Cor 12,1-4). Con questo termine egli vuole indicare una situazione eccelsa, ma che non coincide ancora con la fine quando il Dio unico, se così si potesse dire, si moltiplicherà per essere «tutto in tutti» (1Cor 15,28) (e non tutti nel tutto). L’«oggi» pronunciato da Gesù in croce implica l’avvenire di Dio.

Sono le penultime parole dette prima di morire. Le ultime saranno un affidarsi al Padre. Gesù sulla croce non salva se stesso. Si rivolge al Padre sia a favore di altri («Padre perdona loro...») sia guardando a stesso: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).

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