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V domenica del tempo ordinario | Voi siete il sale della terra

Is 58,7-10; Sal 111(112); 1Cor 2,1-5; Mt 5,13-16

          Nell’orizzonte evangelico, l’accento del «Discorso della montagna» batte, ancor più che sui contenuti dell’insegnamento, su colui che li propose. Il senso più autentico della sua novità potrebbe essere efficacemente riassunto da quanto detto, circa un secolo dopo Matteo, da Ireneo di Lione, quando esclamò che Gesù «portò ogni novità portando se stesso». Per noi che ascoltiamo le parole del «Sermone sul monte», ciò equivale a sapere per quale via si diventa per davvero suoi discepoli.

          «Voi siete il sale della terra» (Mt 5,13); «Voi siete la luce del mondo» (Mt 5,14). Il detto sul sale contiene al suo interno una contrapposizione più forte di quella della luce; in relazione a quest’ultima non si allude a un suo affievolimento e tanto meno a una sua estinzione, ci si richiama semplicemente a non mettere la lampada sotto il moggio. Nel caso del sale s’introduce invece la paradossale possibilità che esso perda il proprio sapore; nel caso ciò avvenisse non resterebbe che gettarlo via (cf. Mt 5,13). Tutti hanno l’esperienza di una luce che a poco a poco si spegne, mentre nessuno si è imbattuto in un sale che ha perso il proprio sapore.

          La simbologia legata al sale è molteplice, infatti questa sostanza è dotata di vari usi. Limitiamoci al fatto che il sale insaporisce i cibi. Dà gusto agli altri, mentre, se assunto in modo diretto, è pessimo al palato. La lampada è accesa non già per essere vista, ma per far vedere. Se si guarda direttamente la fonte luminosa, gli occhi rimangono abbagliati per eccesso di vigore. Analogamente il sale dà sapore, mentre in se stesso è immangiabile. Esso svolge una funzione positiva solo nella misura in cui si disperde; per il sale donare sapore agli alimenti comporta la perdita della propria identità. Per svolgere la sua funzione deve rinunciare a se stesso. Quando si mangia ci si accorge del ruolo svolto dal sale in pratica solo allorché un cibo è troppo salato o, al contrario, decisamente insipido, mentre se il sapore è equilibrato si pensa a quel determinato alimento. Il sale raggiunge pienamente il proprio scopo quando ci si dimentica della sua presenza. In questo senso è metafora di un servizio autentico prestato agli altri. La sua azione è paragonabile a quella delle scarpe: ci si rende conto di calzarle quando sono o troppo strette o troppo larghe, mentre ci si dimentica di averle ai piedi allorché svolgono in modo confortevole il loro compito.

          L’irrealistica immagine di un sale divenuto insipido che cosa sta dunque a significare? Semplicemente la presenza di un sale che non sala. Ciò avviene non tanto perché esso abbia perso la sua qualità intrinseca, quanto perché si è rifiutato di mescolarsi con l’«altro da sé». Il sale insipido è quello che ha voluto salvaguardare se stesso non donandosi agli altri. L’uso della simbologia presente nel «Discorso della montagna» sembra accostarsi a un’altra celebre immagine proposta dal Vangelo, quella del lievito; pure quest’ultimo è una realtà sgradevole in se stessa ma capace di donare leggerezza e fragranza alla farina con cui si mescola (cf. Mt 13,33).

          L’affermare «voi siete il sale della terra» è tutt’altra cosa che dichiarare che noi lo siamo. Si tratta di una qualità indicabile solo da una voce esterna, quella di Gesù. Se ci si autoproclamasse sale, si diverrebbe ipso facto insipidi. Quel «noi» impedisce di sciogliersi nell’altro. Quando si sentono espressioni del tipo «noi cristiani siamo il sale della terra», sorge il fondato sospetto che si è in procinto di diventare sale incapace di salare. Si è chiamati sale per quel tanto in cui partecipiamo alla vita altrui e, per così dire, ci sciogliamo in essa; in questa scelta troviamo reciprocamente sapore.

 

Piero Stefani

 

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