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V domenica di Quaresima | Gesù scoppiò in pianto

Ez 37,12-14; Sal 129 (130); Rm 8,8-11; Gv 11,1-45 

            «Io sono la risurrezione e la vita» (Gv 11,25). Quante volte si è letta questa frase sugli avvisi funebri, sui ricordi, a volte persino sulle lapidi. Rischia di essere percepita come pura consuetudine, o almeno è così fino a quando non ci tocca in profondità con la scomparsa di chi ci è caro. La prova vera del suo spessore la si ha in quei frangenti.

            «Chi crede in me anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno» (Gv 11,25). La risurrezione implica il morire. In ciò si distingue dall’immortalità. La tomba non è un passaggio occasionale. Paolo, nel più antico scritto del Nuovo Testamento, lascia capire che nelle comunità dei primi credenti in Gesù Cristo fosse presente la convinzione di poter andare incontro al Signore «in alto», senza aver sperimentato in proprio la morte (cf. 1Ts 4,15-16). Circa due generazioni dopo, l’autore del quarto Vangelo è invece convinto che anche tutti i credenti moriranno, per loro però la morte diverrà un modo per rendere gloria a Dio (cf. Gv 11,4).

            C’è un senso profondo nel collegare il detto di Gesù a un annuncio funebre. La morte non è la fine di tutte le cose; essa è, come nel caso di Lazzaro, una specie di malattia da cui si può essere guariti (cf. Gv 11,4). In quest’ottica si comprende perché nel brano evangelico ci sia una specie di continuità tra malattia e morte: «Questa malattia non porterà alla morte» (Gv 11,4), significa che la morte (Lazzaro è in effetti deceduto) non sfocerà nella morte. Il cuore della Pasqua è tutto qua; lo sappiamo da sempre, ma lo si imparerà per davvero solo nell’ultimo giorno, che per noi non è ancora il nostro giorno.

            La morte di Lazzaro ribadisce la realtà della morte umana e quindi legittima il lutto come una forma autentica per porci di fronte alla scomparsa di chi ci è caro. Vedendo il pianto di Maria e degli amici di Lazzaro anche Gesù, di fronte alla tomba, scoppiò in pianto (cf. Gv 11,35). Nell’ambito di una logica superficiale sembra un’assurdità (perché condividere il lutto, se poco dopo avrebbe fatto uscire Lazzaro dal sepolcro?); ma nel contesto della vita spirituale le lacrime di Gesù attestano una verità profonda, che giunge a sostenere che Gesù ha richiamato in vita l’amico proprio perché ha pianto («Guarda come l’amava!», Gv 11, 36).

            Quelle lacrime sono vere anche nella dimensione esistenziale; di recente ci è stato riferito di una persona semplice che ha scelto, per il funerale di un fratello a cui fu nota la sventura, il brano in cui «Gesù piange». L’episodio evangelico afferma la verità della morte (l’insistenza sui quattro giorni già trascorsi dal decesso di Lazzaro va letta anche in questo senso, Gv 11,39). Su questo piano il credente non ha sconti, muore come tutti e come per tutti anche per i credenti la morte di chi ci è caro è una perdita. Nulla di quanto è veramente umano è estraneo né a Gesù né a chi crede in lui. La risurrezione e la vita sono dopo la morte; si tratta di una certezza di fede che si accompagna con le lacrime suscitate dal venir meno di una vita.

            Giovanni, dopo aver raccontato che la voce di Gesù chiama fuori Lazzaro dal sepolcro, insiste su un particolare: «il morto» – è chiamato ancora così – «uscì, i piedi e le mani legati con bende e il viso avvolto dal sudario. Gesù disse loro: “liberatelo e lasciatelo andare”» (Gv 11,44). Con le nostre forze non riusciremo mai a liberarci dai lacci della morte e il nostro volto resterà sempre velato. Non così per Gesù.

            Nel descrivere la scena della tomba vuota, Giovanni si preoccupa di sottolineare che il sudario che era stato posto sul capo di Gesù era piegato e avvolto a parte (cf. Gv 11,7). Il Figlio che ha il potere di offrire la propria vita e di riprenderla (cf. Gv 10,17) libera il proprio volto senza aiuto da parte di altri; in virtù di quell’atto anche i nostri volti saranno liberati dalla deformazione della morte: «Io sono la risurrezione e la vita».

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