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Vademecum per pastori e operai

XI domenica del tempo ordinario

Es 19,2-6a; Sal 99 (100); Rm 5,6-11; Mt 9,36-10,8

Il Vangelo di questa domenica ci presenta un Gesù attento alle persone che ha intorno. La loro situazione quasi mortale, non tanto dal punto di vista fisico quanto dal punto di vista spirituale, umano, lo commuove profondamente. Ai suoi occhi sono come «pecore stanche e sfinite che non hanno un pastore».

Ancora una volta questa immagine appare molto lontana dalla nostra sensibilità, e il pensare a delle «pecore» suscita l’impressione che si stia trattando di persone semplici, incapaci di agire, di pensare autonomamente, come una massa che va governata dall’alto, attraverso delle indicazioni semplici e chiare. Ma in realtà non è questo il senso della metafora usata da Gesù.

In un mondo in cui la pastorizia aveva un suo importante ruolo economico e rappresentava una buona fetta della produzione alimentare del paese, il rapporto pastore-pecore era di ben altro valore. Se si pensa a quante volte le pecore compaiono nei Vangeli si comprende come esse rappresentino un grande valore, prese anche nella loro singolarità; hanno capacità di ascolto, riconoscono il pastore buono e sono ben consapevoli dei lupi, dei briganti e dei cattivi pastori.

Ora queste pecore sono «stanche e sfinite» perché non hanno un «pastore». Non hanno cioè un orizzonte valido, che offra loro senso, non c’è nessuno che cammini con loro e in mezzo a loro, non vedono una strada che si possa percorrere per giungere al pascolo, per ritornare a «casa», all’ovile. 

Quasi cambiando discorso – in realtà è solo l’utilizzo di un’altra immagine –, Gesù parla poi della messe. Una messe abbondante, ma che attende di essere mietuta, raccolta; e anche qui gli operai sono pochi, insufficienti per tutto quel raccolto. Colpisce, allora, un particolare: Gesù non chiede che si vadano a chiamare altri operai, ma chiede di pregare «il signore della messe» perché mandi operai alla «sua» messe. Questo significa che non tutti gli operai sono adatti a questo raccolto, e che vi è un particolare legame tra la messe e il padrone della messe. Non si tratta solo di un campo rigoglioso di spighe da raccogliere, ma di una realtà che esprime un profondo vincolo di relazione: ogni spiga è una «sua» spiga e chi è inviato a raccoglierla deve averlo bene in mente.

Il terzo passaggio che Gesù fa è questa volta rivolto ai suoi dodici discepoli: prima di tutto li «chiama a sé», cioè chiede loro di avere una personale relazione con lui; e sarà proprio questa relazione che, poi, permetterà loro di agire nel suo nome, di ricevere il «potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e infermità». L’invio è inoltre accompagnato da alcune raccomandazioni importanti: «non andate tra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani».

Anche qui, a prima vista, sembrerebbe che Gesù dia delle indicazioni di sapore elitario se non razzista, ponendo i pagani e i samaritani in una situazione di inferiorità e indegnità nel ricevere i benefici che la visitazione dei suoi discepoli porta con sé. In realtà sappiamo bene che non è questo il senso: sia i pagani che i samaritani, nella narrazione evangelica, sono oggetto di attenzione da parte di Gesù e sarà egli stesso a portare loro l’annuncio di salvezza; si pensi, per esempio, all’episodio della Samaritana, dell’indemoniato di Gerasa, della moltiplicazione dei pani nel territorio della Decapoli, ecc.

Che cosa significano allora queste raccomandazioni rivolte ai discepoli? Si tratta, in realtà, di una messa in guardia a non assumere caratteristiche culturali o comportamentali che siano pagane, a non permettere che divisioni, scismi, possano compromettere l’autenticità della loro missione e della loro testimonianza. Per ultimo, ma non da ultimo, i discepoli devono sempre avere bene in mente la gratuità, una gratuità per prima cosa ricevuta e poi, proprio per questo, ridonata: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date».

Di fronte a questa pagina evangelica, allo sguardo di Gesù verso le pecore e la messe, alle raccomandazioni che vengono rivolte ai discepoli, mi viene da chiedermi: a che punto siamo?, che cosa vedrebbe oggi Gesù, guardando la nostra realtà, «i pascoli e i campi coltivati»? E mi viene in mente un agile libretto che Antonio Rosmini scrisse nel 1848 dedicandolo al «Clero cattolico» e intitolandolo Delle cinque piaghe della santa Chiesa.

La prima piaga è «la divisione del popolo dal clero nel pubblico culto», la seconda è «l’insufficiente educazione del clero», la terza è «la disunione dei vescovi», la quarta è «la nomina dei vescovi abbandonata al potere laicale»; la quinta è «la servitù dei beni ecclesiastici». Ora, se applichiamo una piccola variante alla quarta piaga in questo modo: «la nomina dei vescovi abbandonata al potere dei movimenti laicali nella Chiesa», possiamo concludere con lo stesso sguardo disincantato del Qohelet: «non c’è nulla di nuovo sotto il sole» (Qo 1,9). Ma uno sguardo «disincantato» non è uno sguardo disperato, anzi è l’unico che veramente tiene aperte le porte alla speranza: è solo riconoscendo l’origine della «piaga» che si può provvedere alla sua cura.

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