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VI domenica di Pasqua | L'avvocato difensore

At 8,5-8.14-17; Sal 65 (66); 1Pt 3,15-18; Gv 14,15-21

            Nell’intera Scrittura la parola «Paraclito» compare solo negli scritti giovannei. Essa si riferisce o allo Spirito (nel lungo discorso dell’ultima cena) o a Gesù Cristo (Prima lettera di Giovanni). L’insieme di questi riferimenti (in tutto appena cinque, Gv 14,16.26; 15,26; 16,7; 1Gv 2,1) non induce a tradurre il termine con la pur possibile e consueta espressione di «consolatore». La parola è da intendersi piuttosto nel suo senso etimologico (tipico del greco classico) di «chiamato a fianco» (in latino ad-vocatus), riferito a chi, nel corso di una controversia, è convocato per essere d’aiuto, di sostegno, d’intercessione e di difesa. Qualcosa, dunque, di simile a un avvocato difensore. Non per nulla nei passi in questione abbondano termini come testimonianza, giudizio, giustizia, condanna e così via.

            «Il Padre (...) vi darà un altro Paraclito» (Gv 14,16). Ce n’era dunque già stato uno. Il primo Paraclito è il Figlio stesso, intercessore perfetto presso il Padre: «Figlioli miei – afferma Giovanni nella sua Prima lettera –, io vi scrivo queste cose perché non pecchiate. Ma se qualcuno pecca, noi abbiamo un Paraclito [intercessore] presso il Padre, Gesù Cristo, il giusto» (1Gv 2,1-2). Gesù Cristo interviene a favore di chi pecca perché ciò rappresenta un frutto del suo essere venuto nel mondo, segno completo dell’amore del Padre. Infatti «non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10). La risposta a questa manifestazione di Dio nel Figlio suo inviato nel mondo è una sola: «Carissimi, se così Dio ha amato noi, così anche noi dobbiamo amarci l’un l’altro» (1Gv 4,11).

            Il comandamento nuovo e antico a un tempo è la «parola che avete ascoltata» (1Gv 2,7), che induce a credere nel nome di Gesù Cristo amandoci gli uni gli altri (1Gv 3,23; cf. Gv 6,29; 13,34; 15,7). L’eventuale peccato di chi crede non conduce alla morte; infatti ci si può sempre appellare al Figlio venuto nel mondo proprio per custodire chi crede in lui (cf. 1Gv 5,16.19) e per guidarlo verso Colui che è il Vero (1Gv 5,20).

            La presenza dello Spirito Paraclito accanto a Gesù è una specie di riproposizione, inserita nel cuore stesso della Pasqua, dell’antico dramma di Giobbe in cui, come in una specie di tribunale, si fronteggiano il giusto sofferente e umiliato, l’avversario/accusatore (il Satan che nel libro veterotestamentario funge da pubblico ministero, cf. Gb 1,9) e Dio. Il Paraclito introduce, accanto a queste, un’altra figura: quella del difensore. Nella Pasqua di Gesù – e nella pasqua della vita di ciascun fedele – Dio è giudice nel Padre, giusto sofferente nel Figlio, intercessore e difensore nello Spirito. In questo triplice modo infatti Dio si trova nell’angustia insieme al suo fedele (cf. Sal 91,15).

            Per secoli la tradizione cristiana ha avvertito vivo il senso del peccato; non di rado l’ha fatto in modo esasperato. Oggi esso è, di contro, spesso accantonato a favore di una misericordia preventiva troppo a buon mercato. A differenza del «loico» di dantesca memoria, sembra che non ci sia più contraddizione a tener assieme contemporaneamente il volere e il pentimento per quanto si sta facendo (cf. Inferno, XXVII, 18-23). Il Paraclito – sia egli il Figlio o lo Spirito – attesta invece che solo prendendo sul serio il peccato si può celebrare compiutamente la forza della misericordia, ed è proprio in questo contesto che il Paraclito diviene «consolatore».

 

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