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VII domenica del tempo ordinario | Porgere l'altra guancia

Perché bisogna astenersi dal rispondere alla violenza con la violenza? C'è una risposta profonda anche in altre culture, ma l'indicazione di Gesù nel Vangelo ha un tratto particolare.

Lv 19,1-2.17-18; Sal 102 (103); 1Cor 3,16-23; Mt 5,38-48 

A volte basta un particolare per dischiudere davanti a noi un intero mondo. Occorre però saperlo cogliere. Nel Vangelo di oggi c’è una sottolineatura che sembra ridondante: «Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra porgigli anche l’altra» (Mt 6,39). L’ultima parte della frase è diventata una specie di proverbio, per lo più volto a indicare un comportamento mite all’eccesso e quindi giudicato non conveniente.

Tuttavia il modo di dire tralascia completamente se si tratti di guancia destra o sinistra. In effetti, sulle prime, sembra essere una specificazione inutile. Non è così. Lo schiaffo è segno di un’ostilità aperta e riavvicinata. I visi stanno l’uno di fronte all’altro, ma se gli sguardi si incrociano lo fanno solo in senso di sfida. La maggioranza delle persone non è mancina. Percuotere il proprio avversario sulla guancia destra comporta perciò colpirlo con un manrovescio. Gesto inteso come particolarmente offensivo: il palmo della mano può anche accarezzare, il dorso è in grado solo di offendere.

Nei versetti precedenti Gesù aveva esposto, in positivo, un modo di comportamento contraddistinto dall’«eccesso». Ci si deve trattenere non solo dall’uccidere, ma persino dall’insultare, non solo dal tradire il proprio coniuge, ma anche dal desiderare di farlo; inoltre ci è comandato di essere fedeli alla parola data senza bisogno di ricorrere a giuramenti. Ora l’«eccesso» passa dalla parte dell’offesa: non solo sei schiaffeggiato, sei pure colpito da un manrovescio (l’anti-carezza per eccellenza). Tuttavia anche l’insulto più atroce non deve mandarti in esilio dalla mitezza.

Perché bisogna astenersi dal rispondere alla violenza con la violenza? C’è una risposta pedagogica pensata in maniera profonda in varie culture. La si trova anche in quella islamica. Il trattatista morale Khalil ibn Ahmad (morto nel 870 d.C.) scrisse: «Se qualcuno fa del male e in cambio riceve del bene, nel cuore di costui si forma una barriera che lo trattiene dal fare altro male simile». La fiducia nell’animo umano espressa in un detto come questo è da molti assunta come illusione. In più occasioni l’esperienza pare dar loro ragione. Ciò non toglie che la fiducia sia il concime più efficace per far germogliare nell’animo dell’altro la pianta della mitezza; anche se, come avviene per ogni fertilizzante, perché la concimazione sia efficace occorre un terreno disposto ad accoglierla.

In realtà la massima evangelica non è vincolata a un possibile, ma non assicurato, esito sugli altri. Essa concerne in prima istanza il proprio operare: sei tu che, in ogni caso, non devi agire da violento anche nel caso in cui dal tuo comportamento non derivasse alcun mutamento nell’animo altrui. L’esempio viene dal Padre, che fa sorgere il suo sole e fa piovere su buoni e cattivi, su giusti e ingiusti (Mt 5,45).

Non lo fa per convertire i cattivi in buoni, infatti i primi non si accorgono neppure che il Padre celeste si prende cura di loro. Agisce così per non abdicare alle proprie responsabilità di creatore del sole e della pioggia e di esseri umani tanto buoni quanto cattivi. Lo fa per non diventare a propria volta ingiusto. Non per nulla è proprio la sua benevolenza a ribadire l’esistenza di una diversità radicale tra giustizia e ingiustizia. Nel nostro comportamento interumano ci è chiesto di imitare il Padre (Mt 5,48). Quando questo modo di agire si trasforma in occasione di conversione dell’«altro» è come se, per dirla con il Vangelo, ci fosse stata data un’«aggiunta» (Mt 6,33).

 

 

Commenti

  • 21/02/2017 carlo.perfetto@gmail.com

    Credo che non sia sufficiente negare la vendetta in risposta all'offesa. Questo è certamente un comportamento coraggioso che ci pone sul piano della non-violenza, di non alimentare la spirale della conflittualità, anzi di essere i primi ad interromperla. Anch'io sono certo dell'effetto critico in chi si aspettava una reazione di segno pari e contrario all'offesa fatta, specie se accompagnata dal perdono dell'offeso a chi l'ha compiuta.

    Devo aggiungere che il perdono è il dono per eccellenza che si offre senza essere chiesto e senza l'aspettativa del pentimento.

    Tuttavia tutto ciò è necessario, ma non sufficiente. Gesù mi sembra ci chiede qualcosa che va oltre la rivendicazione di tanto pacifismo e di tanta non-violenza. Ci chiede in sostanza di abolire la categoria di nemico, perchè essa esclude, segna il confine tra i buoni (gli amici) e i cattivi (i nemici), tra chi è con me e chi contro di me. Il passaggio dall'esclusione all'inclusione, all'accoglienza passa attraverso la giustificazione del colpevole.

    Il destino in cui ci ha immesso ed obbligato Gesù è che la salvezza passa attraverso la nostra giustificazione degli altri. Ricercare nel pensiero le infinite cause che hanno determinato l'offesa, significa sottrarre il colpevole al mio giudizio. Proprio come dice Gesù all'adultera "Neanche io ti giudico". Ed è l'astensione dal giudizio il primo passo per volergli bene.

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