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XIII domenica del tempo ordinario | Abbandono ed accoglienza

2Re 4,8-11.14-16; Sal 89 (88); Rm 6,3-4.8-11; Mt 10,37-42

Il Vangelo di oggi si regge su due polarità, la prima è soltanto implicita, la seconda è detta apertamente. Da un lato c’è l’abbandono, dall’altro l’accoglimento. Lo si comprenderebbe meglio se la liturgia avesse proposto all’ascolto dei fedeli anche il versetto precedente. In esso Gesù, a conclusione del suo discorso diretto ai dodici discepoli (Matteo non usa il termine “apostoli”) inviati ad annunciare l’Evangelo, afferma di essere venuto a portare non la pace ma la spada al fine di dividere l’uomo da suo padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera «e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa» (Mt 10,35). Matteo, per esprimere il contrasto interno alla famiglia, ricorre a un versetto del profeta Michea (cf. 7,6). Nella sua collocazione originaria, esso era volto a esprimere una condizione di corruzione dei costumi. Qui invece lo si trascrive per attestare la dinamica di una chiamata che non è per tutti e che implica la presenza di un distacco, anzi di una rottura.

L’esigenza della separazione è affermata fin dall’origine. Essa è prospettata per contraddistinguere il modo stesso nel quale la vita si propaga sulla terra: «Per questo l’uomo lascerà (alla lettera “abbandonerà”) suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie (alla lettera “donna”) e i due saranno un’unica carne» (Gen 2,24). L’unione del maschio e della femmina implica una precedente separazione. Ci si allontana dai genitori al fine di agire come loro stessi hanno fatto. Il tessuto di fondo non è perciò lacerato. Qui vi è la logica dell’uscita, non quella della rottura. Nell’Antico Testamento, oltre alla vita, anche la promessa passa attraverso le genealogie. Il Vangelo di Matteo (vale a dire la prima pagina del Nuovo Testamento) si apre elencando i nomi propri di una discendenza che inizia con Abramo per terminare con Gesù (cf. Mt 1,1-17). Nella Bibbia è l’ultima volta che ciò avviene. Nella missione di Gesù e dei discepoli non ci saranno più genealogie; il Regno e la fede si basano sulla chiamata, non sulla nascita. Un punto fermo che giunge fino a oggi (e che ai nostri giorni ci è dato comprendere più che un tempo) è che nessuno è cristiano in virtù della semplice nascita. Per il cattolicesimo il matrimonio è un sacramento, i suoi ministri sono i coniugi stessi, dall’unione sponsale benedetta vengono però alla luce creature umane che, in quanto tali, sono estranee alla fede. Si nasce sempre non cristiani. Il credere non è trasmesso per via genealogica, anche se, per forza di cose, neppure esso si prolungherebbe se non ci fosse la generazione.

La dura espressione secondo la quale «chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me» (Mt 10,37) attesta la condizione non genealogica della chiamata  rivolta ai discepoli. Più a vasto raggio, essa conferma una condizione propria di ogni credente. La sentenza evangelica non relativizza né il legame genitoriale, né quello filiale; anzi, essa ne afferma tutta la pregnanza; solo così si comprende perché una prospettiva analoga vale pure per sè stessi. La chiamata al discepolato e quella alla fede esigono sempre un’uscita da quanto ci è più caro e intimo: «Chi avrà tenuto per sé la propria vita la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 10,39). I legami parentali sono da rescindere così come si fa nei confronti di sè stessi. Essi sono, perciò, considerati forti e non deboli. Tuttavia questi nessi devono lasciare il posto alle relazioni nate dalla fede (cf. Mt 12,46-50).

Il lato opposto del distacco e dell’abbandono è costituito dall’accoglienza e dall’aiuto. Anche in quest’ultimo caso non ci si richiama alla dimensione parentale. Non si parla di una ospitalità riservata a coloro con i quali si hanno legami di sangue. L’accoglienza è rivolta a colui che, in quanto inviato, non sa dove posare il capo (cf. Mt 8,20). In modo più esteso, l’ospitalità è rivolta a tutti coloro che vivono non già per tutelare se stessi ma per rispondere a una chiamata e per compiere una missione. In questo novero rientrano i profeti, i giusti, i discepoli che sono tanto piccoli da non potersi procurare da soli neppure un bicchier d’acqua. Chi accoglie il profeta, il giusto e il discepolo lo fa perché possiede una casa, perché ha delle risorse. Tuttavia, attraverso l’accoglienza, egli riconosce che casa e possessi in se stessi non sono tutto. Per chi li ospita, il profeta, il giusto e il discepolo divengono esempi di una “vita altra” di cui, con il suo gesto, lui stesso riconosce il valore. Abbandono e accoglienza trovano qui il loro punto di congiunzione.

 

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