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Attualità
Attualità, 14/2020, 15/07/2020, pag. 422

La paura non può dormire

Mariapia Veladiano

In questi giorni esce in Italia La volpe era già il cacciatore, di Herta Müller, autrice rumena Premio Nobel per la Letteratura nel 2009. Questo appena tradotto da Feltrinelli è un bel romanzo del 1992, la storia di vite normali artigliate dal tradimento (Romania degli anni Ottanta, Ceausescu, Securitate), intrise di paura. Bello e tremendo. Paura e tradimento sono temi anche di molti saggi della Müller, alcuni dei quali si possono rileggere in una raccolta del 2012: La paura non può dormire. Riflessioni sulla violenza del secolo scorso (Feltrinelli). Si tratta di discorsi pubblici tenuti in occasione dei premi ricevuti oppure di eventi commemorativi.

In tutti Herta parte dalla sua storia. Rumena della regione del Banato, appartiene alla minoranza tedesca. Il villaggio in cui nasce è piccolo, chiuso, tutto tradizione, piazza, canti tradizionali e famiglia. La famiglia è avvelenata dall’ombra del padre, che a 17 anni si è arruolato nelle SS, e dello zio Matz, nazista invasato, antisemita, morto in guerra. C’è lo strazio di un padre che si ha bisogno di amare ma non si può amare. E di un piccolo mondo asfissiante che ci vorrebbe circuire.
Ma la storia personale di Herta Müller serve a vedere
e capire.

Quando va in città per studiare e incontra il mondo, sceglie. Sceglie gli amici, sceglie la parte da cui stare. In una dittatura non si può che essere di parte, e bisogna essere dalla parte giusta. Così quando la Securitate la contatta più e più volte affinché diventi una spia dentro il gruppo di amici, lei sa cosa dire all’emissario: «Non ne ho il carattere. Non voglio diventare come lei» (50).

Era la durissima lezione del padre: «Questo rifiuto era un esito della passata collaborazione di mio padre. Innanzi tutto non volevo diventare com’era stato lui a diciassette anni, perché in tutti gli anni successivi si poteva vedere su di lui come una volta invischiati non si smetta più. Come si continui a trattare male se stessi e gli altri, come sia necessario essere brutali quando si sono commessi degli errori e si sa qualcosa di sé che nessuno deve sapere» (50).

Com’è diventato suo padre? Un uomo spesso ubriaco che ancora negli anni Sessanta canta canzoni naziste in tavolate di uomini che sono andati alla guerra, hanno assimilato l’allegria sciagurata di un cantare che non ha niente di conviviale e innocente, ma che «gonfia di vanagloria i tedeschi di un tratto di terra rumena» (69).

Quando Herta Müller ragazza e poi donna si avvicina a lui con un sentimento di affetto, lui si affretta a diventare tremendo ed è insopportabile. Non può (più) accettare di essere amato: «Era un predone che, ritiratosi alla vita civile non riuscì mai più a ritrovare il proprio posto» (70).

Al male bisogna non dare principio. C’è un male di stato, un male tossico che fa morire il tessuto della comunità. Allora bisogna che il bene personale dello stare contro sia compito di tutti noi. Resistere, wiederstehen, dove wieder contiene la radice indogermanica «ui», che significa stare separati, distinguersi, stare a pie’ fermo in faccia all’altro che vuole il male.

«Dappertutto personaggi viscidi, decerebrati, criminali e claqueur avevano il bastone del comando. Ogni ascesa si fondava sul tormentare gli altri: simulare, spiare, denunciare, annientare» (70). Ma ci sono «vie sottili», così chiama Herta Müller i sentieri su cui ancora si possono posare i piedi e camminare (71).

Le ricette sono semplici, ma costano moltissimo. Viene in mente la strada stretta del Vangelo. Non è facile, no, ma semplice sì. Il nonno materno, padre dello zio Matz che era tornato nazista e antisemita dal periodo d’istruzione in città, prima rimprovera più volte il figlio e gli ricorda che tutta la loro ricchezza la dovevano ad amici commercianti ebrei. Poi lo prende a sberle ma «la ragione di Matz era stata annullata» (16).

Poi il nonno, che era stato soldato durante la Prima guerra mondiale e sapeva di che cosa parlava, conclude: «Quando le bandiere sventolano la ragione scivola nella tomba» (17).  Poi c’è la nonna di Jürgen Fucs, scrittore e poeta dissidente nella Repubbica democratica tedesca. In occasione di una laudatio in suo onore, Herta ricorda le parole della nonna dello scrittore, scritte quando il nipote diventa soldato alla frontiera: «Anche se per forza devi andare nell’esercito, caro Jürgen, non uccidere» (143).

È semplice, alla fine. Non uccidere. Ce lo dice il Comandamento e dobbiamo  ricordarcelo l’un l’altro. «Siccome vuole amare il nipote anche dopo l’esercito, questa contadina delle Montagne Metallifere ha molto pragmaticamente posto la condizione per questo amore, e l’ha espressa nella frase più semplice possibile» (143). Servirà questa raccomandazione a Jürgen.

Un giorno nel carcere della Stasi avrà la tentazione di uccidere. «Uccidere, essere uccisi, uccidere l’altro» (144). Non lo farà. Poi c’è il tradimento. Herta lo ha sentito sempre vicino. Le è stato chiesto di tradire, ha conosciuto traditori, non si poteva mai ignorare che chiunque poteva essere una spia, per paura, per opportunismo, per indifferenza, per l’annientamento del senso morale a cui tendeva la dittatura. Bisognava annientare la possibilità  di credere. In Dio come nell’uomo. La fiducia è un pericolo per il potere.

«Mondo, mondo, fratello mondo» è il titolo di una conferenza sulla cantante rumena Maria Tãnase, popolarissima. La censura la perseguitò perché faceva con le canzoni quello che fa l’arte tutta: «vincere la tristezza senza minimizzarla», offrire un sostegno sul filo di rasoio, far piangere il sentimento attraverso la ragione (167). Eccola: «Chi ama e abbandona / Dio lo punisca / Dio lo punisca, / con lo strisciare del serpente, / con il passo dello scarafaggio, / con il sibilo del vento, / con la polvere della terra» (160).

Tipo Riletture
Tema Cultura e società
Area
Nazioni

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