Nena e lo "sconosciuto" Pérochon
Ernest Pérochon è uno scrittore francese molto interessante, molto prolifico, poco conosciuto e poco tradotto. È nato nel 1885 a Courlay, nel dipartimento Deux-Sèvres, area agricola, poverissima, squassata il secolo prima dall’insurrezione vandeana.
Pérochon è colpito sia dalla condizione di povertà di molti suoi compagni di scuola, sia dall’asprezza con cui vengono vissute le questioni religiose. Molto dotato, diventa insegnante nello stesso suo paese d’origine e per gran parte della vita questo sarà il suo lavoro, mentre parallelamente si dedica alla scrittura. Nel 1914 al fronte è colpito da un primo infarto e viene congedato.
La guerra, la povertà dei contadini e la bellezza struggente della campagna in cui vive costituiscono l’ispirazione per i suoi romanzi dei quali troviamo tradotto in italiano solo Nena (Bietti, Milano 1934, traduzione di Alfredo Fabietti), con il quale vinse nel 1920 il premio Goncourt. È la storia struggente di Maddalena Clarandeau, assunta dal giovane fattore Michele Corbier, vedovo da undici mesi che gli sembrano undici anni. L’uomo ha due bambini piccolissimi e ha bisogno di una fantesca, una cuoca, una vice madre per i figli. Si sente «solo e debole, senza l’appoggio di una tenerezza» (15).
Maddalena è dissidente come il padrone. Si impara fin dalle prime pagine che le appartenenze religiose sono fondanti nella comunità. Ci sono i cattolici, che hanno i loro preti e le loro chiese, ma sono gli eredi di quei preti che nella sollevazione di Vandea hanno infine accettato il giuramento di fedeltà. Hanno dalla loro una legittimità legale ma proprio questo li avvelena e saranno le figure più tristi e malevole.
Poi ci sono i dissidenti. Sono gli eredi dei refrattari della rivolta, quelli che non hanno giurato. Discendenti di quelli che «al tempo della Rivoluzione... nella loro ignoranza, s’erano sollevati pieni di fervore, seguendo i loro amati sacerdoti» (23). Poi, quando quasi tutti i preti si erano piegati e avevano prestato giuramento di fedeltà, «soltanto i più accaniti, i meno accorti avevano continuato la guerra all’interno del loro cuore. E i fedeli li avevano seguiti nel loro selvaggio isolamento, nella loro disdegnosa ignoranza fatta di minacce e scomuniche» (24).
Solo nella macchia vandeana restavano questi dissidenti ormai senza preti, sostenuti bizzarramente dai protestanti che si erano convertiti al calvinismo prima della ribellione vandeana, fratellanza di minoranze combattute ed escluse. Qui capitano i fatti narrati.
Maddalena s’affeziona imprudentemente ai bambini che le sono affidati, certo anche al padrone Michele, ma sono i bambini a muovere in lei gli affetti più forti. Intorno, un mondo di servi contadini, povero di beni ma feroce di affetti. Il fratello Giovanni, soprannominato Corazziere per la forza e l’impeto dei gesti, ama Violetta, cattolica, delle Figlie di Maria, che passa da un uomo all’altro, prima per vanità e poi per convenienza. Anche un giovane prete cade nelle sue tresche, un «adolescente delicato, dagli occhi di sogno» (247) e sarà la rovina per lei che dovrà mettere tutte le sue seduzioni al servizio dell’unico uomo che può salvarla dalla povertà e dalla vergogna, quel Michele dissidente, spaventosamente bisognoso d’affetto e quindi disposto anche al battesimo per portarla all’altare.
E la comunità è ben disposta a dimenticare i peccati se la forma verrà opportunamente coniugata con la sostanza di un matrimonio che è anche un successo per la conta dei fedeli cattolici della piccola comunità. Le pagine del romanzo sono piene della poesia dei luoghi: il ruscello che saltellava «con un piccolo rumore di sonagli» (179), «l’aria che era viva e nuova; la terra che fumava. Dietro l’orecchia dell’aratro mille piccoli aliti si espandevano precisi, sottili; parevano voler salire in alto in alto, come fossero felici di sfuggire alle zolle» (7).
Ma ci sono personaggi che restano conficcati nel cuore per la precisione affilata con cui vengono raccontati. Violetta, Corbier, Corazziere hanno il privilegio d’essere fra i protagonisti e quindi tante pagine li disegnano, ma Giulio il matto ne ha poche eppure così precise da poterlo immaginare vivo vicino a noi. È giovane, mentalmente scombiccherato, ma non del tutto, viene usato da questo e quello per disperdere le notizie, soprattutto false, che riguardano il piccolo paese, interviene nei momenti che preludono al dramma, malinconico e determinato.
Il più vicino a noi per postura e universale modernità è certamente l’anima nera di Boiseriot. È un lavorante di Michele Corbier, respinto da Maddalena che ne intuisce la malvagità, cattolico, dispensatore di malparlare e aizzatore di violenza. Il male per il male, per il gusto di potersi pensare un momento come Dio e guidare le cose del mondo. Lo troviamo come ombra che sussurra. La pagina in cui va a confessarsi e con il suo raccontare astuto «uscì dal confessionale perfettamente in regola e tutto contento come un comunicando» (111) è ferocia spirituale. La fine di tutto sarà tragica, come la visione del mondo dell’autore.
Nel 1942 Pérochon respinge l’invito a collaborare con il Governo di Vichy e per questo viene accusato d’essere un agitatore nemico del popolo. Nel mezzo di queste tensioni un secondo infarto lo porta alla morte. Le biografie registrano un funerale senza alcuna ufficialità e il divieto di qualsiasi cerimonia di commemorazione da parte dei suoi studenti. La riabilitazione arriva alla fine della guerra.
Un autore elegante, una scrittura piena di poesia, un uomo dall’etica impeccabile ma, come capita, il fatto di provenire da una regione periferica e di non avere frequentato i luoghi del più riconosciuto mondo intellettuale ne ha condizionato la notorietà e la diffusione. Peccato.