A
Attualità
Attualità, 8/2024, 15/04/2024, pag. 246

La casa dell’alchimista

Mariapia Veladiano

Di Gustav Meyrink conosciamo bene Il Golem, successo enorme che divenne subito un film muto con Henrik Galeen e Paul Wegener il quale poi girò un secondo film Il Golem, come venne al mondo, nel 1920, che è quello che noi ricordiamo perché del primo rimangono pochi frammenti.

Qui si parla invece dell’ultimo romanzo di Meyrink, incompiuto, un frammento anche questo, ma vulcanico, sulfureo come il suo autore. S’intitola La casa dell’alchimista (traduzione Alessandra Pepe, Edizione Studio Tesi, 1992) e abbiamo tre capitoli più un lungo exposé – come viene chiamato dall’autore – dove conosciamo il progetto dell’opera. Che sarebbe stata, come oggi si dice, un’opera mondo, cioè un gioco di significati, allegorie, digressioni, il tentativo d’afferrare il senso del mondo e delle mille diversità che lo abitano.

L’ambientazione è una città tedesca non nominata e il tempo è la contemporaneità dell’autore, cioè la fine degli anni Venti (Meyrink inizia l’opera nel 1927 e morirà nel 1932 senza averla terminata). I personaggi che incontriamo sono caratterizzati in modo estremo. C’è un «corrispondente», cioè un giornalista, il quale vaga per la via cercando la «Casa del pavone» che è appena di fronte ma l’insegna è coperta da un blocco di neve che cade esattamente nel momento in cui un misterioso individuo dall’aria ascetica gliela indica.

L’uomo è bizzarro. Porta un mantello a quadri, un cappello a quadri, un abito a quadri e in poche pagine il narratore lo chiama direttamente «l’uomo a quadri». Presto incontriamo una serie di personaggi che di quadrato, normale, borghese, razionale non hanno niente e infatti subito, dentro la «Casa del pavone», il giornalista appare stonato e fuori posto.

C’è il misterioso persiano Khosrul Khan con la giovane bellissima figlia, c’è Markus il copto, giocoliere, c’è un orologiaio, Hyeronymus Güstenhöver, discendente del primo proprietario della casa, un alchimista famoso che aveva cercato per tutta l’esistenza, invece della pietra filosofale, l’elisir di lunga vita. E c’è «un vecchio secco come un chiodo» che dice di chiamarsi Gracchus Meyer e che introduce il corrispondente ai misteri della casa, mirando con ogni evidenza a essere ricompensato.

A un tavolo del locale, in cui qualcuno beve il caffè e altri fumano il narghilè, incontrano Apulejus Ochs, pluri-dottore perché ha accumulato una quantità di lauree imponenti e ancora continua a studiare, dal momento che una parente gli ha lasciato una rendita finché si fosse laureato, ma non ha specificato in quale disciplina, così lui continua a studiare una facoltà dopo l’altra e a vivere senza dover lavorare. Da lui più avanti sapremo che la facoltà più difficile da concludere è stata quella di Teologia dove a momenti proprio ha rischiato di venir bocciato: «Durante l’esame di dogmatica dovevo dimostrare che Dio ha creato l’uomo... quando il processo è esattamente il contrario! All’ultimo momento per fortuna sono riuscito ad arrangiare una risposta chiara!» (21). E ci è riuscito – spiega – perché ha saputo rinunciare alla sua presunzione propria degli studenti e così non ha difeso la sua personale opinione. Come i bravi studenti devono fare.

Un altro incontro, che è più un’apparizione, sulle scale a chiocciola che portano al primo piano, è con il dottor Ismael Steen, appoggiato alla parete, osservatore beffardo. Il dottore – s’apprende – abita il piano di sopra, un piano dalle pareti misteriosamente più sottili di quelle spesse e antiche del piano terra. Lì ha creato uno studio cinematografico dal soffitto di vetro che fa da tetto all’edificio e da pista d’atterraggio per il suo biplano personale. Il dottore sarebbe stato il protagonista del romanzo, secondo l’exposé di Meyrink, ma già le pagine in cui viene presentato lo rendono un personaggio che si ricorda.

Intanto il povero corrispondente al suo cospetto improvvisamente si sente nudo. Il ridicolo travestimento del suo abito a quadri, a cui tiene tanto, si disintegra sotto lo sguardo del dottore, che non parla, solo guarda, trasudando, per così dire, la propria superiorità. Poi il buon Apulejus spiega che lui, il dottore, usa la scienza psicoanalitica al contrario, non per guarire ma per far ammalare. La sua strategia è «insinuare complessi», cioè «idee fisse degli uomini». «La crescita dei complessi somiglia all’attecchimento dei polipi nell’anima», sono dei «microbi spirituali», che sono molto meno visibili dei «bacilli materiali» (22).

È un processo diabolico, ovviamente, e infatti il dottor Steen rappresenta questo potere mefistofelico sulla storia, che passa attraverso il controllo degli uomini, tutti gli uomini che incontra, e che avviene attraverso la parola che «può creare e distruggere» (27). Ma, ecco, se si va a vedere perché gli uomini ci cascano, si lasciano contagiare (la parola contagio è fondamentale in questo processo, tanto che gli avventori della «Casa del pavone» se la sussurrano l’un l’altro con terrore), troviamo che «è soprattutto la tendenza a mentire a se stessi... Ed è risaputo che questa tendenza ce l’hanno tutti gli uomini. Se non ce l’avessero, chissà, probabilmente sarebbero immortali» (22). Verità e immortalità.

Poche pagine di un romanzo appena tratteggiato, in cui Meyrink mette tutte le sue ossessioni esoteriche, misteriche, le conoscenze sulle religioni tradizionali o arrivate attraverso passaggi di un carsismo di cui si perdono le tracce. Fra l’inizio del romanzo e la morte dello scrittore si colloca il suicidio del giovane figlio e chissà se l’ossessivo girare intorno al tema dell’immortalità ha una qualche radice in questa tragica eppure comune esperienza.

Di sicuro quello che ci è arrivato di questo progetto è un concentrato di riflessioni che rimangono impresse, come la riflessione di Steen sulla paura: «Ci spinge a fare ciò che vorremmo evitare (...) La paura capovolge la volontà (...) Chi conosce la sua essenza la può pilotare, la può proiettare verso l’esterno, la può usare come arma, come un lanciafiamme... può, se conosce il gesto magico al quale ubbidiscono tutte le forze di questo tipo, gettare uomini e animali nel pianto e nello stridor di denti» (74).

 

Tipo Segnalazioni
Tema Cultura e società
Area
Nazioni

Leggi anche

Attualità, 2024-8

M. Veladiano, Parole per giorni di pace

Mariapia Veladiano

È successo di tutto. Forse lo si può dire sempre, di ogni tempo che la Terra ha conosciuto, ma di sicuro lo stiamo dicendo di questi anni appena trascorsi. Una pandemia ha sigillato il mondo, fermato la corsa, ha squadernato l’umana fragilità, gonfiato la paura. Poi una guerra impensata, nel cuore della civiltà che l’aveva solennemente ripudiata con principi quasi universalmente condivisi.

 

Attualità, 2024-6

Il girasole

Mariapia Veladiano
A Simon Wiesenthal siamo grati per il Centro ebraico di documentazione sulle persecuzioni che gli ebrei subirono in Germania ed Europa prima e durante la Seconda guerra mondiale. Lui era ebreo di Bučač in Galizia, a sud di Leopoli. Perseguitato prima dai russi e poi dai tedeschi. Internato in 13 campi di prigionia e concentramento, liberato nel 1945 da quello di Mauthausen. Grazie a lui un numero...
Attualità, 2024-4

La firma. Una famiglia veneta fra due secoli

Mariapia Veladiano

È un romanzo in cui si casca come in un pozzo. Non ci si può fermare. E non a causa delle (moltissime) cose che accadono, ma perché ci si trova con una vivacità e una limpidezza straordinarie dentro agli avvenimenti formidabili che hanno determinato la storia italiana del Novecento.