A ogni uomo un soldo
Qui in questa rubrica Bruce Marshall lo conosciamo già per Il miracolo di padre Malachia (Regno-att. 20, 2022,654; l’originale è del 1931), pirotecnica storia di un miracolo bizzarro che si è rivelato piuttosto inutile e forse dannoso rispetto al fine che il buon Malachia si era prefissato, ovvero convertire tiepidi credenti e miscredenti alla vera unica fede cattolica.
Qui in questa rubrica Bruce Marshall lo conosciamo già per Il miracolo di padre Malachia (Regno-att. 20, 2022,654; l’originale è del 1931), pirotecnica storia di un miracolo bizzarro che si è rivelato piuttosto inutile e forse dannoso rispetto al fine che il buon Malachia si era prefissato, ovvero convertire tiepidi credenti e miscredenti alla vera unica fede cattolica. Anche in questo romanzo, A ogni uomo un soldo (apparso nel 1949; qui seguo l’edizione Longanesi del 1953, con la traduzione di Margherita Santi Farina), il protagonista è un ecclesiastico, ma meno spettacolare e anticonformista di padre Malachia.
Si tratta del mite e acuto abate Giovanni Gaston, un «ometto piccolo e tarchiato di trentacinque anni» (17), con una curiosa barba nera eredità dei suoi anni missionari. Nel 1914 è cappellano aggiunto «non ufficiale» nell’immaginaria parrocchia di Saint-Clovis, in centro a Parigi. Vive in una piccola soffitta accanto alla chiesa con la compagnia di un gatto che porta convenientemente il nome di San Biagio di Cappadocia (i successivi felini saranno Santa Elisabetta d’Ungheria e San Giovanni della Croce).
Intorno a lui impariamo subito a conoscere gli altri preti di Saint-Clovis, quelli ufficialmente incaricati, che vivono insieme nella casa parrocchiale, e fra loro il canonico Litry, il parroco, un ecclesiastico convenzionale, intriso di santi pregiudizi.
Il racconto assume il punto di vista dell’abate Gaston e lo segue nelle sue scelte e nei suoi pensieri da quando parte per la Prima guerra mondiale fino alla fine della Seconda. È sicuramente un uomo di grande fede, obbedisce con scrupolo ai precetti della Chiesa che ama esattamente finché la sua coscienza di credente non gli dice di fare in modo diverso. Perché è evidentissimo al suo giudizio che la Chiesa talvolta sbaglia nel giudicare il mondo.
Ad esempio Gaston si chiede «perché gli arcivescovi non condannassero i bombardamenti con la stessa rabbia con cui condannavano il controllo delle nascite» (326). Oppure perché sembra prevalere il giudizio morale sugli affetti. Lui ama tutti i bambini e le bambine del catechismo ma una in particolare, Armelle, perché è una bambina buona. La seguirà in tutta la sua dolorosa vicenda, che non finirà bene.
A causa della povertà, in un momento in cui lui non potrà aiutarla perché è lontano, lei diventerà una prostituta. Cosa che sarebbe peraltro stato possibile evitare, lo dice chiaramente l’abate Gaston, se i buoni cristiani intorno a lei, fra cui i preti della parrocchia, l’avessero appena appena aiutata. In ogni caso si prenderà cura di sua figlia affidandola alle buone suore dell’orfanatrofio e curandone il mantenimento. Il tutto fra la riprovazione del canonico Litry e della sua corte.
L’abate Gaston ha un amico fraterno che è fieramente comunista. Si chiama Filippo Bessier e si ritrovano insieme al fronte da dove Gaston torna zoppo per una ferita e l’altro senza una gamba (come accadde allo stesso Marshall, ragazzo inglese del 1899 sul fronte francese).
I due discutono spesso di politica e Gaston sente che c’è molto di vero nelle parole dell’amico quando dice che bisognerebbe far la guerra non ai tedeschi ma ai ricchi e ai fannulloni, ma sente che «il cristianesimo è qualcosa di più che un rimedio per i mali della società» (29) e si rammarica tanto per non saperlo spiegare bene all’amico che più avanti ospiterà nella sua minuscola camera, e aiuterà quando sarà ricercato dalla polizia per aver incendiato un autobus.
Come ospiterà, sempre nella sua stanza, anche una giovane ragazza ebrea scappata dall’Austria dove buoni cristiani le avevano voltato le spalle. E anche un ufficiale tedesco nei giorni della liberazione della Francia e questo a momenti gli costerà la vita. C’è un’innocenza radicale nelle sue azioni, ma nessuna ingenuità. Quando la banca gli ingiunge di saldare uno scoperto importante (è molto povero e in queste imprese generose spende più di quello che ha) s’ingegna bene e abbiamo una luminosa lezione di esegesi sulle parole di Gesù «candidi come colombe, astuti come serpenti».
Gaston sa che quello che fa non piace alla Chiesa e accetta questa disapprovazione perché crede profondamente che i preti siano chiamati a essere al servizio della misericordia di Dio, non dell’ira. È molto consapevole del fatto che non basta parlare, si rimprovera di non saper predicare, insegnare il catechismo, indurre i cuori alla conversione. E riflette spesso sul ruolo della povera Chiesa di cui vede i difetti riflessi nella sua pochezza: e qui troviamo delle riflessioni folgoranti, figlie della grande competenza teologica dell’autore, cattolico convertito.
A un confratello scoraggiato dalla oggettiva sacra miopia del solito canonico Litry, l’abate Gaston risponde che «per la Chiesa c’era sempre speranza, e anche certezza. La Chiesa era tutta una lunga pazienza» (46). E quando dopo la guerra i confratelli si mostrano opportunisti e voltagabbana, lui è certo che non sono cattivi «altrimenti non avrebbero rinunziato al mondo per farsi imprimere nell’ordinazione il segno di Dio. Erano deboli e di uomini deboli Dio aveva costruito la Chiesa... E quando gli uomini deboli stavano ai suoi altari, Dio cingeva sempre la Chiesa con le braccia perché non avesse a disgregarsi» (371).
Il libro è dedicato a Elizabeth Myers «scrittrice di valore e donna di coraggio». Un’autrice d’inizio Novecento, morta di tubercolosi dopo due soli romanzi e qualche racconto. Una bella scoperta che promette sorprese.