L’atto di fede
Lettera del vescovo di Rieti dopo il terremoto
«Chi ha perso gli affetti più cari non sa più cosa desiderare... chi ha perduto tutto si chiede cosa fare... Non siamo più gli stessi». Nel novero delle parole di senso pronunciate in questi mesi dai pastori delle Chiese ferite dal terremoto, questa lettera pastorale che mons. Domenico Pompili, vescovo di Rieti, ha rivolto alla sua diocesi – una delle più colpite – all’inizio dell’Avvento si distingue per la totale empatia. E per come insiste a dire che, alle domande addolorate, sarebbe insensato rispondere «ce lo siamo meritati». A partire dall’esempio di Giobbe, è piuttosto richiesto il «passaggio difficile» di «una visione sapienziale del male», che rifiuta un’idea retributiva e lascia spazio al dolore, prima di approdare al «credere senza garanzia». Un «atto di fede» possibile, prosegue mons. Pompili sempre parlando in prima persona plurale, perché il terremoto ha sfondato, come in un noto quadro di Magritte, la porta chiusa delle nostre sicurezze materiali, consentendoci di comprendere che si può vivere «senza muri, ma non senza fede». E che «è dal legame che si può ripartire (…), dal salvarsi a vicenda».
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