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Il Regno delle Donne

L’anti-Babele. Rosalìa e la «misticopolitica»

Del nuovo album della cantante pop Rosalìa, LUX, ha parlato anche il presidente della Conferenza episcopale spagnola Luis Argüello, e mai la parola «mistica» è stata così presente sui giornali. Mistica femminile, soprattutto, perché le figure che ispirano l’artista (e vi sono citazioni disseminate per tutto l’album) vanno da Ildegarda di Bingen a Simone Weil, da Chiara d’Assisi a Olga di Kiev. Nel nome di Rosalia si raccolgono anche le campagne contro la violenza.

L’operazione evoca quella di Giuni Russo che dialogava con Giovanni della Croce (album Morirò d’amore, 2004), e più recentemente (2023) Daniela Pes che, dopo «un periodo di studio e lavoro di musicalità sulle poesie di un sacerdote del Settecento», si è inventata una lingua in cui qualcuno ha ritrovato la lingua ignota di Ildegarda di Bingen.

In LUX, il nuovo album di Rosalìa, di lingue (note) se ne contano 13, compreso il dialetto siciliano e relativo riferimento alla santa patrona di Palermo da cui la cantante prende il nome, la santa Rosalia che si sottrasse al matrimonio combinato per ritirarsi a vita eremitica, e che oggi più che mai è divenuta icona della libertà delle donne.

Qualcosa sfugge sempre

Rosalìa canta in arabo, giapponese, latino, catalano, mandarino, ucraino, ebraico, tedesco, francese, oltre ovviamente all’inglese e allo spagnolo. È un intreccio di geografie e di epoche antiche e moderne, straniante soprattutto perché varie parole di lingue diverse si compongono nello stesso brano, e non raramente nella stessa frase. Se si ascolta una canzone dietro l’altra, di punto in bianco ci si può trovare a riconoscere la propria lingua, ma non è mai esattamente la propria. Per l’uditorio italiano la traccia che suona familiare è Mio Cristo piange diamanti, ma già il titolo tradisce strutture grammaticali non lineari (in un’epoca in cui ChatGPT traduce con acribia ogni virgola): così, perfino ciò che si conosce da una vita lo si ritrova un po’ spostato, eccentrico – per rubare l’aggettivo a un bel libro di Claudia Marsulli su Teresa d’Avila. Anche quando finalmente si capisce, non è mai del tutto. È così che funziona la mistica: notifica che qualcosa della vita ci sfugge anche in ciò che è a noi più vicino.

Mistica e quotidiano

Interessante è anche l’esperimento d’avviare una playlist generica di Rosalìa e ascoltare le canzoni dell’ultimo disco mescolate con quelle dei precedenti, che includono tormentoni e pezzi smaliziati. Sui social c’è chi ironizza sul cambio radicale delle atmosfere, ma questo stacco netto è forse l’elemento più coerente con il funzionamento della mistica, che non è di per sé una svolta, una conversione, ma una intuizione.

Paradossalmente, il massimo della coerenza di Rosalìa con la parabola dei mistici si darebbe se il suo prossimo album tornasse a musiche e testi che non esplicitano un’impronta religiosa. La mistica è infatti una frattura che fa intravedere qualcos’altro, una dislocazione, un vuoto che una volta aperto è uno spazio percorribile da una parte e dall’altra (e, in verità, in molte direzioni). La percezione che la massima distanza sia anche la massima vicinanza e che l’Assoluto sia insieme assolutamente popolare rende possibile anche l’inverso: che il pop, cioè il quotidiano, la parte più normale delle nostre vite, possa essere uno scorcio su qualcos’altro d’imprevisto, un’estraneità, un impensato. La mistica ha una dimensione di potenzialità e di creatività: il più banale dettaglio diventa generativo. Non cambia nulla, ma in realtà cambia tutto.

Ricomporre una comunità: «misticopolitica»

Michel De Certeau scriveva che «La mistica è l’anti-Babele, una ricerca di un parlare comune dopo la sua frattura, l’invenzione di una “lingua degli angeli” poiché quella degli uomini si disperde.» (L’énonciation mystique). Quando non ci sono più «parole di tutti», ne servono altre. Dev’essere una delle ragioni per cui un’operazione come quella di Rosalìa risulta tanto affascinante, specialmemte oggi, anche per chi è lontano da un’appartenenza religiosa: il recupero della mistica è offrire una chiave comune a una altrettanto comune sensazione di non sapersi più parlare.

Da anni analizziamo la nostra Babele del XXI secolo: la polarizzazione del dibattito pubblico, la sempre più diffusa difficoltà di comprensione dei testi, il restringimento degli spazi di dialogo, e via così. È un’esperienza culturale e personale dolorosa. A quanto pare ci serve intravedere il modo di capirci di nuovo e di ricomporre una comunità. Ci serve una mistica.

E, precisamente, ci serve una «misticopolitica», come spiega Elizabeth Green in Dio, il vuoto, il genere: «Misticismo, libertà e resistenza si implicano a vicenda: mistica e politica camminano a braccetto». Infatti, se è vero che la mistica ci aiuta a ricomporre una comunità è perché offre strumenti di resistenza – non solo un linguaggio condiviso, ma la lucidità sulle sofferenze individuali e collettive, l’intuizione di una giustizia perseguibile, la visione di una solidarietà fra tutti e tutte. Una comunità capace di riconoscere ogni identità (senza omologarla), e aprire un orizzonte di futuro. Misticopolitico è il Regno dei cieli: la cura delle ferite, la risposta alla violenza, la creazione di una patria per tutti. E chissà che non ritroveremo anche Rosalìa su queste corde, al prossimo album.

Nel frattempo, ascoltiamo Reliquia.

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