Nunc dimittis

Quella sua rapida e inattesa dismissione dall’ospedale aveva fatto presagire che il tempo si era fatto breve, la scienza medica non aveva più nulla da mettere in campo e quelle pochissime parole sussurrate erano state più esplicite di un infausto bollettino medico. Avrei voluto fosse risparmiato alla chiesa il dramma di vivere per la seconda volta l’agonia afasica del suo pontefice in diretta televisiva. Ma così non è stato, consentendo forse ad alcuni di accarezzare l’illusione che Francesco avrebbe potuto farcela: lo si pensa sempre quando non si vuole perdere qualcuno che si ama.
Mi sono domandata se quell’ultimo viaggio in papamobile tra le decine di migliaia di pellegrini che gremivano la piazza fosse dovuto a una pretesa da parte di Francesco stesso, di cui neppure cinque settimane di ospedale avevano fiaccato la proverbiale ostinazione. Quando, due giorni dopo, ho letto che era stato proprio lui a volerlo mi è sembrato chiaro che a farglielo desiderare era stata, ben più della cocciutaggine, la consapevolezza di un’ultima pasqua da vivere con quel popolo che sentiva di condividere con il suo Dio. Chi se ne prendeva cura, d’altro canto, ha capito che un papa che per dodici anni si è rivolto alla chiesa e al mondo con i gesti oltre che con le parole, aveva il diritto il giorno di pasqua di compierne uno che lo consacrasse ancora una volta come il “papa del/per/con il popolo”. Quel popolo da cui fin dal suo primo momento come vescovo di Roma aveva voluto essere benedetto prima di essere lui a benedirlo. Ed è stata l’ultima espressione del suo magistero ordinario
Quando la papamobile si è affacciata dall’Arco delle campane, la sapienza mediatica del regista televisivo ha evitato accuratamente di riprendere Francesco di fronte, divenuto ormai, fin dal giorno del suo saluto dal balcone dell’ospedale, uomo dei dolori davanti al quale ci si copre la faccia (cfr. Is 53,3). La telecamera ha piuttosto seguito quel viaggio inquadrandolo da dietro, e l’affettuosa premura del suo segretario che è arrivato fino a fargli piccoli massaggi sul collo, ha caricato quell’immagine, altrimenti immobile, di calore e di colore.
Tutto questo è riuscito a liberare le ultime istantanee di Francesco vivo in mezzo a noi dall’ingiusta condanna, per lui prima ancora che per noi, all’ostensione di una sofferenza e di un’agonia private della loro autentica umanità perché, appunto, ostentate quasi fossero un vessillo o, ancor peggio, un trofeo, solo immagini verso cui non puoi fare nessun gesto di partecipazione e di compassione.
L’accorta delicatezza del regista mi ha consentito di seguire quel viaggio che si inoltrava tra due ali di folla e di coglierne un tratto che a poche ore di distanza mi si è poi rivelato in tutta la sua luminosa preveggenza e con la forza di un significato possibile.
All’inizio del vangelo di Luca, tra gli inni incastonati nei primi due capitoli dedicati all’origine divina del Messia, l’ultimo è messo in bocca a un uomo vecchio, Simeone, che insieme a una altrettanto anziana profetessa, Anna, presidiava il Tempio in attesa del Messia. Il canto inizia con le due parole che lo hanno scolpito nella memoria liturgica della chiesa, Nunc dimittis: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola…» (Lc 2,29).
A poche ore di distanza, quella incerta percezione si è precisata e provavo a ripensare a quelle ultime immagini che hanno suggellato le celebrazioni pasquali come il Nunc dimittis con cui Francesco prendeva congedo dalla sua vita ricca in umanità, abitata da infiniti uomini e donne che lo hanno accompagnato e sostenuto in salute e malattia, ma anche dal suo ministero petrino così pieno di contrasti, di slanci e di frenate, di cose nuove e cose antiche, avrebbe detto l’evangelista Matteo (13,52).
Ora, finalmente, poteva andare, e quella reciproca benedizione attestava che tutto era compiuto. Lasciando però aperta, per me, la questione fondamentale. Il Nunc dimittis continua infatti con l’affermazione «perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza» e continuo allora a chiedermi cosa può aver visto, sentito, capito Francesco da quell’intenso momento di congedo, preceduto, con buona probabilità, da molta riflessione e preghiera: come andrà avanti il tempo della salvezza per questa chiesa che mi è stata affidata, per questa gente che ho amato, per questo mondo per il quale Cristo si è rivelato come luce per le genti (cfr. Lc 2,32)?
Tutto è stato casuale, evidentemente, nulla era studiato. Se qualcuno lo avesse immaginato, non sarebbe riuscito così bene: l’immagine di spalle di un vecchio uomo irrigidito e quasi senza vita di fronte al quale una folla festante esprime invece tutta la sua inesauribile vitalità segna un punto di non ritorno, diviene icona di un pontificato, “parola” di un discorso di addio di un papa per cui i gesti sono stati più magisteriali delle parole.