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Il Regno delle Donne

Uomini e donne nella Chiesa: la corresponsabilità, per esempio

La corresponsabilità ecclesiale ha a che fare con la differenza di genere: non si tratta di dividersi ambiti di competenza, ma di pensarsi nella parzialità, rispettarsi nella diversità, relazionarsi nella reciprocità. Riconoscendo l’autorità femminile e riconsiderando la formazione e l’esercizio del ministero ordinato

Mentre mi preparavo a partecipare al convegno di Vicenza “Chiesa di donne e uomini corresponsabili nella diaconia”, mi è tornato alla mente un fatto. In vista dell’ordinazione diaconale, il rettore del Seminario mi chiama a colloquio. Sono perplessi se ordinarmi, per una frase detta durante un’assemblea: La Chiesa deve essere più democratica! Ma la Chiesa è gerarchica, mi ricorda il rettore.

A dire il vero penso che si dovrebbe superare non solo la visione gerarcologica della Chiesa, ma la stessa espressione gerarchia. La Chiesa è sì generata dall’alto, ma l’azione dello Spirito può passare anche attraverso forme democratiche. Il vescovo di Roma viene eletto a maggioranza, eppure riteniamo che nella sua elezione c’entri lo Spirito Santo.

Chi detta l’agenda della Chiesa?

Talvolta sento dire che la Chiesa insegue troppo il mondo, facendosi dettare l’agenda dall’aria del tempo, mentre ha un’agenda sua, dettata dalla fedeltà alla missione. Sarebbe il caso anche del tema della corresponsabilità, che oggi s’impone, ma perché siamo sensibili alla partecipazione democratica. Qualcuno parla addirittura di cedimento alla “ideologia democraticistica”, che assolutizza le forme democratiche e vorrebbe applicarle ad una istituzione gerarchica come la Chiesa.

Io penso invece che l’agenda, alla Chiesa, dovrebbe dettarla un’attenta lettura dei “segni dei tempi”. Diciamolo fuori dai denti: non ci fosse stato il cammino storico che ha rivendicato i diritti di ciascuno (e in particolare i diritti delle donne da parte dei movimenti femministi), non saremmo qui a parlare di corresponsabilità nella Chiesa. È stato questo significativo “segno dei tempi” a interrogare la forma di Chiesa, cristallizzatasi nel corso della storia, spingendo a un riforma più evangelica, in linea con il discepolato di eguali degli inizi.

Non deve sorprendere se la Chiesa è chiamata ad imparare dal mondo, come dice Gaudium et spes 44. E lo dice in riferimento a credenti e non credenti, arrivando ad affermare che le può venire giovamento persino da quanti la avversano e la perseguitano. Grazie quindi a ciò che si è mosso nella storia, e soprattutto nella storia delle donne, perché ha permesso alla Chiesa di cominciare a parlare e agire in chiave di corresponsabilità.

Responsabilità per il Vangelo del regno di Dio

Se dalla storia ci viene la provocazione per una Chiesa di donne e uomini corresponsabili, è sempre nella storia che va attivata questa corresponsabilità, là dove siamo chiamati a rispondere insieme al regno di Dio che viene. Sarebbe infatti fuorviante e riduttivo pensarla in riferimento all’istituzione ecclesiastica da tenere in piedi, magari per il calo di preti che spinge a requisire laiche e laici nelle attività parrocchiali.

D’altra parte, tuttavia, quando ci si riferisce alla corresponsabilità ecclesiale va anche superata la distinzione tra intra ed extra (come testimonia l’evoluzione postconciliare della “questione del laico”). Una battezzata e un battezzato che si dedicano alla parola di Dio, in cammini di studio o di spiritualità, non snaturano la loro identità; come non avviene per una religiosa o un prete impegnati in ambito lavorativo.

Si è responsabili insieme del Vangelo, di cui ciascun cristiano è non solo portatore attivo, ma prima ancora interprete. Non ha senso ingaggiare nell’azione evangelizzatrice cristiane e cristiani ai quali non si riconosce anzitutto la responsabilità di prendere parola sulla Parola, interpretandola con l’autorevolezza che viene dalla fede e dalla vita di ogni battezzato.

Exousía delle donne?

Al convegno sono stato positivamente provocato, in quanto prete abituato a svolgere un ministero di presidenza, dalle relazioni di Morena Baldacci e di Simona Segoloni. La prima in riferimento alla dimensione liturgico-simbolica, e la seconda dal punto di vista della leadership, hanno fatto emergere l’interrogativo di quale “potere” sia davvero riconosciuto alle donne nella corresponsabilità ecclesiale.

Una significativa spia: fino alla recente traduzione liturgica della CEI, si modificava un testo delle Scritture pur di non riconoscerlo. Nella prima lettera ai Corinzi, Paolo afferma che le donne chiamate a profetizzare nell’assemblea devono portare sul capo un segno di exousía, autorità. Quale era la traduzione del testo fino a pochi anni fa? «La donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza» (1Cor 11,10). L’exousía non poteva essere quella della donna, ma – come veniva spiegato in nota – un segno dell’autorità del marito a cui era sottomessa.

La corresponsabilità ecclesiale ha a che fare con la differenza di genere, che non significa indicare ambiti in cui dovrebbe esprimersi il “genio femminile”, cadendo in stereotipi assai presenti nell’immaginario religioso. Significa piuttosto attivare un processo, dove si apprende a pensarsi nella parzialità (il maschile tende invece a pensarsi come neutro universale), rispettarsi nella diversità (ognuno vive e interpreta singolarmente il proprio genere, in una costruzione libera e responsabile), relazionarsi nella reciprocità (dono all’altro il mio punto di vista e accolgo il suo, non assolutizzando il mio).

Il nodo del ministero ordinato

Da maschio celibe, dedicato a tempo pieno all’istituzione ecclesiastica, sento che è assolutamente necessario riformare la formazione e l’esercizio del ministero ordinato. Solo così sarà possibile la trasformazione chiesta dalla Evangelii gaudium, che permette di attivare concretamente la corresponsabilità: cambiare «le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale» (EG 27).

Se non lo si fa, il modo di procedere sarà sempre direttivo e non comunionale, cioè dall’alto verso il basso, dai preti ai laici, da chi prende le decisioni a chi collabora per eseguirle. Un tale ripensamento interroga lo slittamento avvenuto dal Vaticano II in poi: dal presbiterato come ministero al sacerdozio come stato di vita, di perfezione. In questo modo ritorna la piramide e viene così reso insignificante nelle prassi il rovesciamento ecclesiologico conciliare, più volte rievocato da papa Francesco.

 

 

Commenti

  • 12/12/2018 Nicola Chiarulli

    Mi sembra illuminante l'approccio di Papa Francesco a questo tema: egli ha fortemente sollecitato la Chiesa intera a ripensare la presenza della donna nella comunità (a cominciare dai luoghi in cui si prendono decisioni) mettendo meglio in luce il suo dono specifico, irrinunciabile, pari nella dignità; e - allo stesso tempo - ha ribadito con grande energia l'impossibilità che la donna possa accedere al ministero ordinato.

    Questa chiarezza spezza decisamente la prospettiva, ancora in fondo androcentrica, per cui "riconoscere la specificità e la dignità della donna" significa semplicemente "assimilarla all'uomo", ai suoi ruoli, al suo potere, magari addirittura al suo "stile" (in fondo: permettere anche lei di raggiungere... la punta della piramide!). Ho l'impressione che una parte delle battaglie e delle rivendicazioni su questo tema siano ancora agitate, almeno sotterraneamente, da questa sensibilità risentita. O dal corrispondente senso di colpa.

    Si tratta invece di introdurre definitivamente nella ecclesiologia un principio di comunione, di complementarietà e di reciprocità (non esattamente di "democraticità" in senso strettamente procedurale: essa infatti è storicamente luogo di conflitto controllato e spazio politico divisivo in cui coagulare "partiti-partizioni").

    E a ragione si collega questo tema a quello del rapporto tra sacerdozio battesimale e sacerdozio ministeriale, che sarà probabilmente uno dei grandi temi della riflessione teologica del futuro. Non so se ci siano modelli "politici" o anche soltanto "laici" in grado oggi di contribuire a dar forma a una nuova ecclesiologia. E' senz'altro legittimo farlo (...d'altronde anche Mosè adottò un modello adeguato per imparare a gestire il suo popolo grazie ai consigli di un vecchio ed esperto capo tribù pagano come Ietro!).

    Si può forse fare discernimento con grande cautela su alcune pratiche del 'community building'. Tuttavia probabilmente potremmo cercare con frutto meglio altrove. Penso ad esempio al modo con cui si sono strutturate nel tempo realtà ecclesiali poco appariscenti, che non a caso a volte faticano un po' a trovare una loro definizione giuridica precisa.

    Nella mia esperienza posso citare i Foyers de Charité, nei quali i rapporti tra il Padre del Foyer, la responsabile di comunità e i membri del Foyer (che possono essere anch'essi preti!) hanno una specificità che mette radici nella loro storia e nel loro specifico carisma, e che andrebbe approfondita (e Marthe Robin avrebbe moltissimo da dire sul rapporto tra i due sacerdozii).

    Oppure penso alle Equipes Notre Dame, in cui il Consigliere Spirituale (per lo più un prete) trova e valorizza il suo specifico e vive appieno il suo ministero proprio nella relazione paritaria con le coppie. Insomma dovremmo forse innanzitutto riconoscere e comprendere nella fede i doni che lo Spirito Santo sta facendo alla Chiesa per farla crescere in questa direzione. E su tutto questo ovviamente un approfondimento - ma allo stesso tempo sapiente e cordiale - della Teologia sulla Beata Vergine Maria.

  • 19/11/2018 Agostino Giani

    Ieri a casa di amici ho incontrato 2 giovani a cui ho chiesto se anche loro come i padroni di casa erano scout. Mi hanno risposto di sì e uno ha precisato “scout e prete”. Perché un prete deve aggiungere che è prete (tra l’altro era evidente dal suo abito)? Condivido quanto scritto nell’articolo: la chiesa ha bisogno di comunione e non di persone che per stato sono superiori alle altre.

  • 14/11/2018 avv.avv.mgpalazzo@libero

    È proprio cosi. Si registra, senza soluzione di continuità, la resistenza diffusa e ben radicata a un cambio di paradigma culturale nella prassi ecclesiale. Le donne, pur da sempre numerose e presenti, vengono promosse al rango di preziose interlocutrici e animatrici in rari e motivati casi. Più spesso si utilizzano le competenze di alcune per necessità, per compiti esecutivi, sempre in un'ottica direttiva. Ma cum grano salis, perché appaia il netto divario che c'è tra preti e laici. Come se le donne, tessuto vivo e connettivo all'interno della categoria antropologica del Popolo di Dio, fossero ancora e sempre da tenere a bada, assai più gradite come obbedienti, eterne educande. Si parla e si plaude a un maggiore impegno dei cristiani nella politica. Ma quale duro discernimento al suo interno deve compiere ancora la Chiesa, non solo gerarchica, per riconoscere di dover esercitarsi (e fare davvero mea culpa) nella prassi concreta, a essere comunità in un permanente processo di conversione!

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