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Attualità
Attualità, 12/2023, 15/06/2023, pag. 384

Lettera a una professoressa

Mariapia Veladiano

Don Milani è divisivo. Lo è stato sempre e continua a esserlo. La gioia assoluta di ogni editore, oggi. Divisivo vuol dire polemiche, articoli, visualizzazioni, popolarità, denaro. Povero lui, che povero scelse di essere e solo dei poveri si è occupato. E poveri anche noi, perché davvero non è facile mantenere il piè fermo nella confusione.

Allora. Chi frequenta per mestiere e passione il mondo della scuola e della letteratura sa che Lettera a una professoressa (Libreria editrice fiorentina, Firenze 1976) è un capolavoro. Di scuola e di letteratura. L’incipit perfetto, diretto, sfacciato, che ogni autore sogna di trovare: «Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti» (9), e già siamo obbligati a continuare a leggere.

E insieme la competenza, oggi si direbbe così, nelle questioni didattiche e pedagogiche più vere e appassionanti: la dispersione scolastica, sempre usando il lessico dei nostri tempi, la didattica cooperativa buona sempre e praticamente obbligatoria nella pluriclasse (cioè costituita da studenti di diverse età che in contesti diversi sarebbero distribuiti per classi omogenee) che don Milani aveva di necessità creato a Barbiana; la didattica immersiva per le lingue straniere (i ragazzi di don Milani andavano all’estero a lavorare e così imparavano le lingue eccome) e così via.

C’è talmente tanto di tutto quello che a scuola s’è fatto dopo, che ci si chiede come sia possibile attaccare anche ferocemente questo prete bizzarro che in un oscuro paese dell’Appennino insegnava la parola a un manipolo di ragazzi sicuro che questo fosse il suo compito di predicatore della parola di Dio.

Forse il motivo è quello di sempre, quando partono attacchi sgangherati. Che ha ragione, che quello che ha scritto rimane, come capita ai classici della letteratura, e anche loro sono di tanto in tanto divisivi, e allora resta solo l’arma del discredito, anche personale, e pure questo gli è capitato, in tempi recenti.

Comunque. Lo si accusa, testi alla mano, di essere il padre della deriva lassista della scuola italiana, perché ha smontato il feticcio del merito: «Selezione suicida»; «Una scuola che seleziona distrugge la cultura» e così via (104s). Si sa che ai testi, torturandoli opportunamente, si può far dire quello che si vuole. Tagliando, estrapolando, isolando parole ed espressioni.

E infatti. Don Milani di merito e selezione parla sì, ma a partire dalla disuguaglianza. Il merito va benissimo ma dopo che la scuola ha riparato la condizione d’immenso, iniquo svantaggio con cui i bambini arrivano a scuola. Non c’è storia di merito possibile, racconta Lettera a una professoressa, se c’è chi nemmeno ci arriva a scuola come accadeva ai bambini del tempo di Barbiana se non ci fosse stata Barbiana, e come accade oggi, se non recuperiamo i bambini dispersi, si chiama dispersione ma potremmo chiamarlo sprofondamento. Sommersi, invisibili, spariti, vivi perché hanno imparato l’arte di sopravvivere nei ghetti delle città.

Ecco. Magari a molti sta bene, che le cose vadano così. Se si nasce dalla parte giusta, ci può andare bene. Se la scuola italiana (e di parte del resto dei paesi ricchi) non ha saputo colmare questa disuguaglianza è perché non ha seguito abbastanza don Milani, non perché lo ha seguito troppo. Non ha dato sufficienti risorse per dare la lingua italiana a chi arriva in classe senza parole, perché culturalmente bisognoso o perché straniero. Non si è fatta carico a sufficienza dei poveri, di cultura e di spirito.

Dove questo è stato fatto, scuole che noi gente di scuola, appunto, conosciamo bene e ammiriamo e studiamo, ci sono stati risultati splendidi, come a Barbiana. Non bocciare vuol solo dire che «arrivare alla terza media non è un lusso. È un minimo di cultura comune cui ha diritto ognuno. Chi non l’ha tutta non è Eguale» (80s).

Lo si accusa di manicheismo: i poveri tuttibuoni, i ricchi tutticattivi. Iniziatore inconsapevole e involontario della deriva armata del Sessantotto, ma non per questo senza colpe, perché da una posizione all’altra si scivola e lui è il maestro (cattivo) a cui tanti si sono ispirati. Lui che ha pagato carissima la posizione antimilitarista della Lettera ai cappellani militari. Ma la Lettera a una professoressa lo dice chiaro, che anche i ricchi escono male dalla scuola che esclude, perché «ai ricchi toglie la conoscenza delle cose» (105).

Contro di lui si arruola (termine esatto, è una battaglia) l’uno su mille, fra i poveri, che ce l’ha fatta e che testimonia come il duro lavoro sul greco e sul latino può dare il riscatto sociale. Verissimo, purché al liceo ci arrivi, e non sia infinitamente pluribocciato prima di trovare chi gli dà la parola, le parole, la lingua, come faceva ostinatamente don Milani.

E comunque, questa retorica consolatoria finge di non sapere che fra i 999 che non ce la fanno la maggior parte non è pigra e colpevole, è solo nata senza giustizia intorno.

La forza della Lettera a una professoressa è la contabilità degli esclusi. Le tabelle finali. I bocciati sono i poveri. Scartati. C’è esattamente questa parola, che è scolastica e politica. 

Don Milani non ha mai voluto essere copiato, cacciava chiunque gli chiedesse risposte e soluzioni. Stava in un paese che non aveva scuola e ha fatto scuola. I suoi bambini avrebbero continuato a zappare zolle (e forse questo va bene a tanti, quali che siano le zolle) e invece hanno viaggiato per il mondo, hanno fatto mestieri diversi, sono diventati anche professori e politici.

Ha detto in faccia al mondo che la disuguaglianza fa male a sé stessi, alla società, alla pace. Ha dato una speranza. 

Quelli che lo criticano possono dire lo stesso? 

 

Tipo Riletture
Tema Cultura e società
Area
Nazioni

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