m
Moralia Blog

Considerazioni etiche per robot

A mano a mano che i robot si antropomorfizzano e i sistemi di intelligenza artificiale diventano sempre più capaci di farli interagire in modo autonomo con la realtà circostante, aumentano le discussioni di ordine filosofico ed etico sulla valenza morale dei robot stessi.

Sono macchine, oggetti, ma nello stesso tempo il loro agire simil-senziente e il loro essere sempre più tra noi pongono degli interrogativi le cui risposte si polarizzano sostanzialmente in due posizioni.

Non persone, ma strumenti

Da una parte vi è chi nega che i robot possano avere uno statuto morale, essendo di fatto dei beni. Dall’altra invece c’è chi sostiene che essi debbano per certi versi essere considerati, se non come soggetti capaci di avere dei diritti, perlomeno come enti nei confronti dei quali alcune valutazioni morali di per sé possano e debbano essere fatte. Una possibile rassegna della letteratura in questo senso è rinvenibile qui.

Tra le questioni in gioco credo sia particolarmente interessante chiederci quanto il nostro modo di rapportarci con i robot dica di noi e come ci umanizzi o disumanizzi.

La questione che desidero affrontare qui non riguarda il rapporto complesso tra lavoro e robotica, la sostituzione dell’uomo con la macchina, ma le modalità con cui collaboriamo con la macchina, soprattutto se antropomorfa, e che cosa questo dica di noi più che della macchina.

Le iterazioni con la macchina infatti possono essere buone palestre di virtù o, per converso, insidiosi scivoli verso il vizio. Ma vi è di più: il fatto che sempre di più la nostra vita sia mediata dalla tecnologia rischia di far diminuire le nostre attenzioni rispetto alle conseguenze che le nostre azioni hanno sulle persone, anche se intermediate da agenti tecnologici.

La tecnologia è una pratica

In altri termini, abituarsi a un atteggiamento virtuoso anche nei confronti delle macchine mi pare ci consenta di continuare ad avere un atteggiamento virtuoso anche nei confronti delle persone. Infatti un atteggiamento personale difficilmente permette di avere posture diverse, perché diventa velocemente habitus indifferenziato, e la macchina è sempre più il tramite tra le persone.

Dunque non si tratta solamente di pratica delle virtù, secondo la quale qualunque campo in cui farne esercizio è funzionale allo scopo di acquisire virtù. Si tratta anche di una pratica delle virtù più profonda, attraverso mediazioni che forniscano una maggiore consapevolezza – e dunque capacità di esercizio libero della nostra volontà – nell’uso di determinate mediazioni per fare il bene, e non semplicemente per evitare il male.

In altre parole la tecnologia e le sue manifestazioni sono pratica, sono il mondo in cui noi esercitiamo oggi la nostra umanità. Essendo pratica, è nel rapporto con essa, in modo privilegiato, che noi siamo o meno virtuosi.

 

Luca Peyron è presbitero dell’arcidiocesi di Torino, dove ha fondato e coordina il Servizio per l’apostolato digitale. Insegna Teologia all’Università cattolica di Milano. Ha scritto Incarnazione digitale (Elledici 2019).

Lascia un commento

{{resultMessage}}