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Moralia Blog

Dopo la COP26. Giustizia climatica, in che senso?

La COP 26 di Glasgow è stata un evento di grande importanza, nel quale la comunità internazionale ha vissuto giorni di serrato confronto su come far fronte al mutamento climatico in atto: un tema di grande spessore politico ed etico.

Non intendiamo proporre un bilancio complessivo di tale evento e dei suoi ambivalenti risultati, ma solo soffermarci su un’espressione più volte risuonata nei relativi dibattiti, ma anche carica di risonanze di grande spessore morale: «giustizia climatica».

Attorno al nodo del mutamento climatico ruotano infatti complesse questioni, che interessano le prossime generazioni, ma anche quella corrente: c’è un problema di giustizia intergenerazionale.

Vi sono al contempo gravi asimmetrie tra le diverse nazioni quanto alla ripartizione delle responsabilità e ai rischi: spesso coloro che vengono più colpiti dagli impatti del riscaldamento globale (si pensi alle piccole isole del Pacifico o alle aree dell’Africa che vedono una crescita della desertificazione) ne sono meno responsabili in termini di emissioni di gas serra: c’è un problema di giustizia intragenerazionale.

È peraltro soprattutto in quest’ultima accezione che la parola giustizia è stata utilizzata nel dibattito a Glasgow, ma con due significati decisamente distanti, anche dal punto di vista della valutazione etica.

Due domande di giustizia

Da un lato, infatti, abbiamo inteso tale linguaggio negli interventi dei paesi più vulnerabili, che giustamente hanno chiesto con forza un reale sostegno finanziario (e non solo promesse) per il loro sforzi di realizzare un adattamento a un mutamento di cui sono solo in piccola parte responsabili. Si tratta di un’istanza assolutamente legittima, che merita tutto il sostegno di un’opinione pubblica eticamente attenta.

Dall’altro, però, ha fatto un deciso riferimento alla giustizia climatica – ricollegandosi intenzionalmente alle posizioni precedentemente presentate – il governo indiano, nell’annunciare l’intenzione di dilazionare il raggiungimento della neutralità climatica da parte del proprio paese al 2070 (e non al 2050 come la maggior parte dei partecipanti alla COP 26 e neppure al 2060, come faranno Cina e Russia).

A suo dire, infatti, poiché i paesi occidentali hanno a lungo realizzato un elevato tasso di emissioni climalteranti, adesso l’India ha il diritto di fare lo stesso, né alcuno ha diritto di imporle qualcosa di diverso. Anche a seguito di tale posizione – condivisa poi anche dall’Indonesia – nel documento finale gli impegni condivisi in tal senso sono espressi in un linguaggio molto generico («attorno alla metà del secolo»), indebolendo quindi la possibilità di un’alleanza virtuosa per un contenimento tempestivo delle emissioni.

E non dimentichiamo che il tempo rimasto per un’azione efficace è breve – assai meno del mezzo secolo che ci separa dal 2070; in assenza di essa l’intera famiglia umana si troverà esposta agli effetti di un mutamento che impatterà pesantemente sulle vite di tutti e di tutte – e dei poveri in primo luogo.

Diritto di inquinare?

È importante notare che l’analogia del linguaggio si accompagna a valutazioni morali completamente diverse. Questo secondo uso di «giustizia climatica», infatti, sembra sottendere un «diritto a emettere» – dunque sostanzialmente un «diritto a inquinare» –, che andrebbe riconosciuto in pari misura agli esseri umani e che legittimerebbe quindi la posizione indiana.

Tale istanza, però, è del tutto fuorviante dal punto di vista etico: nessuna carta internazionale riconosce un simile diritto; l’unico che vale invece in quest’ambito è quello a un ambiente sano, sicuro e abitabile, e alla concreta realizzazione di tale diritto sono impegnati tutti i soggetti responsabili.

Questo non significa negare la necessità di un forte, prioritario impegno delle economie storicamente più pesanti in termini di emissioni –sul sia versante sia della mitigazione sia del sostegno all’adattamento dei paesi più fragili –, ma evidenzia l’esigenza primaria di un’alleanza tra soggetti diversi per contenere il mutamento climatico, cui tutti devono contribuire per quanto è loro possibile.

In questo senso chi voglia parlare rettamente di giustizia climatica dovrebbe tenere conto in primo luogo della sua dimensione intergenerazionale: è il futuro a essere in gioco; se non lo custodiamo adeguatamente, sono i nostri figli – specie nelle aree più fragili – che ne pagheranno il prezzo.

La vera domanda cui rispondere quando si parla di giustizia in quest’ambito è allora quella chi poneva mio figlio quando aveva ancora dieci anni: «Papà, perché noi dovremo vivere in un ambiente tanto più brutto di quello che avete avuto voi?».

 

Simone Morandini è vicepreside dell’ISE San Bernardino e membro del Comitato esecutivo del Segretariato attività ecumeniche.

Commenti

  • 25/11/2021 Carlo Maria Ferraris

    Oltre al risultato poco positivo del vertice sul clima riguardo alle misure per frenarne l'evoluzione, mi sembra che ancora meno attenzione sia stata prestata ai provvedimenti da prendere per salvare le persone dagli effetti del mutamento climatico. E' inaccettabile che si discuta per giorni sulle energie fossili e sui gradi di temperatura e poco ci si preoccupi dei milioni persone che intanto per il clima muoiono.

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