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Eco-profughi: tragedia del bene comune

Quando G. Hardin in The Tragedy of the Commons (pubblicato su Science nel 1968) suggeriva l’immagine della scialuppa, con a bordo le nazioni ricche e intorno i naufraghi disperati in balia delle onde che cercano di salirvi, non immaginava quanto la realtà avrebbe drammaticamente superato la metafora. Nel solo 2014 in 219.000 hanno attraversato il Mediterraneo, provenendo in buona parte da aree segnate da conflitti, tanto che più del 50% degli arrivi si è tradotto in richieste di asilo (dati UNHCR). Pertanto l’aiuto alle popolazioni nei paesi di origine, invocato da tempo ma quasi mai sostanziato di precisi contenuti, esige anzitutto adeguate strategie di soluzione per conflitti di varia natura.

Restano però sullo sfondo altri – se possibile ancor più inquietanti – scenari, riconducibili a fattori demografici e ambientali. Sul piano demografico il tasso di incremento della popolazione di molti paesi dell’area subsahariana è ancora tale da non consentire l‘accesso delle prossime generazioni a un mercato del lavoro che stenta a decollare. Proprio la difficoltà a creare economie regionali efficienti rinvia al secondo scenario: il degrado dei suoli – dovuto a desertificazione e catastrofi ambientali, oltre che all’urbanizzazione e alle colture intensive – ne limita drasticamente i già ristretti margini di sviluppo.

 

Eco-profughi

È, questo, lo scenario più drammatico sul medio e lungo periodo: il cambiamento climatico è destinato a generare un crescente esodo di profughi ambientali. Suscita poco più che curiosità l’ipotesi del premier della piccola isola di Kiribati – destinata a divenire il primo stato sommerso dalle acque – di cercare salvezza acquistando un’altra isola su cui trasferire in massa la popolazione.

Entro il 2050, però, gli eco-profughi saranno tra i 200 e 250 milioni (dati OIM). L’incremento di temperatura globale è ormai acclarato scientificamente, corroborato da una mole di dati che confina nel passato le discussioni tra (presunti) apocalittici e (sedicenti) realisti. Pur concedendo che si tratti anche di dinamiche ricorrenti (sempre la temperatura del pianeta è variata con importanti esiti ecosistemici, e da sempre le popolazioni si spostano sulla base di pressioni ambientali), ciò che si prevede insostenibile è l’arco temporale – troppo ridotto per consentire i necessari adattamenti – così come l’intensità dell’impatto su scala planetaria, dovuto all’incremento di emissioni dovuto al fattore umano.

La comunità internazionale è dunque chiamata ad assumere una responsabilità, civile e istituzionale, che traduca in termini concreti la solidarietà tra uomini e popoli accomunati nella condivisione dell’ambiente, come risorsa e come fatica. In particolare quattro sembrano essere i passi più urgenti da compiere:1) protocolli maggiormente vincolanti per la riduzione dei gas serra;

2) riconoscimento dello status di “rifugiato ambientale”;

3) attivazione di canali umanitari rispettosi della dignità e della vita di chi lascia condizioni insostenibili;

4) creazione di una cultura dell’accoglienza, fondata sulla comprensione dell’iniqua distribuzione di costi (ambientali) e benefici di un modello di sviluppo, che premia una minoranza della popolazione del pianeta, tradendo così la naturale vocazione dell’ambiente a essere bene comune.


Pierpaolo Simonini

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