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Moralia Blog

Il Cantico letto da Benigni: i sensi e il senso

Una grande canzone per Sanremo: Benigni legge e commenta il Cantico dei cantici... ed è subito scandalo. Apprezzamenti, ma anche dure contestazioni. Su tutte una: aver proposto una lettura centrata sulla fisicità erotica per un testo che, secondo i critici, andrebbe invece affrontato solo col codice dell’allegoria, a cogliervi l’espressione dell’amore di Dio per la sua Chiesa. Un’inaccettabile dissacrazione, insomma, un approccio poco avvertito della complessità del testo....

Dichiaro subito che la mia reazione è stata diversa, profondamente diversa. Già solo aver parlato di un testo che altrimenti sarebbe semplicemente rimasto ignoto a tanti merita un grazie. Se poi qualcuno – e, parrebbe, anche ben più di qualcuno – lo ha cercato per leggerlo direttamente (magari in rete, magari ritrovando qualche Bibbia polverosa negli scaffali di casa), il grazie diventa anche più grande.

Del resto, Benigni non è nuovo a simili pratiche di invito alla lettura: da Dante alla Costituzione, passando per il Decalogo, sono ormai tanti i «classici» rilanciati dal geniale toscano a un panorama culturale chiuso e stagnante. Chi crede nella forza dirompente di tali testi, e del loro messaggio etico e/o religioso, può essere soltanto grato a chi ne favorisce l’ascolto da parte di un vasto pubblico. Soprattutto poi quando lo fa dopo essersi documentato, dopo aver consultato poeti e biblisti di spessore (riferimenti apparentemente ignorati dai critici).

Si pensa forse che sia tutto strumentale, che Benigni usi la Bibbia per cercare notorietà (come se ne avesse bisogno...)? O rimane piuttosto in alcuni l’idea che l’accostamento diretto al testo biblico, senza adeguata mediazione ecclesiastica, sia pericoloso?

Conflitto d’interpretazione

Dopo il grazie, però, rimane il problema dell’interpretazione. E non è da poco: Benigni avrebbe forse distorto il senso di un testo sacro per fare audience? Avrebbe ridotto la portata di un grande canto dell’amore divino, facendone quasi-pornografia?

Certo la tradizione cristiana, così come quella ebraica, ha tanti autorevoli testimoni dell’interpretazione allegorica di un Cantico che davvero – come tutti i libri biblici – parla dell’amore di Dio. C’è però qui anche un altro problema di interpretazione: quello del rapporto tra le immagini bibliche e ciò che esse intendono comunicare. Su tale tema c’è nella tradizione teologica una storia lunga e controversa, impossibile da ripercorrere in questa sede; la memoria del processo a Galileo Galilei, ad esempio, invita a diffidare dalle interpretazioni troppo letterali.

E tuttavia... non dovremmo tener presente quanto concrete siano le immagini di salvezza usate dalla Scrittura (guarigione, libertà dalla schiavitù, rinnovamento del mondo naturale)? E quanto frequenti le riduzioni che, facendo leva sulla dimensione simbolica, tutto riconducevano alla sola interiorità individuale? Sono spostamenti che hanno avuto anche pesanti conseguenze etiche: la giustizia sociale predicata dalla tradizione profetica si è trovata spesso svuotata della sua esigente concretezza, per diventare mero simbolo del rinnovamento interiore promesso e richiesto al credente. E anche il rapporto tra l’uno e l’altro Testamento non è stato forse profondamente distorto quando si è guardato al Primo soltanto per cercarvi simboli della salvezza portata da Gesù Cristo?

Il testo e i sensi

Sia chiaro; il Primo Testamento porta davvero in sé elementi che il Nuovo riprende e ricolloca nella luce di Gesù Cristo; le immagini profetiche di giustizia e rinnovamento del cosmo sono davvero anche simboli di una giustizia che rinnova il cuore umano.

Nel leggere tali realtà, però, dovremmo anche tenere presente un’affermazione della stessa Scrittura, molto cara alla tradizione ebraica: «Una parola ha detto Dio, due ne ho udite» (Sal 61,12). È il riconoscimento della ricchezza di senso di una Parola che può guardare alla quotidianità della vita umana nella sua concretezza, senza per questo cessare di testimoniare anche di una realtà che è Altra.

Giustamente Armido Rizzi ricordava che i frutti della terra simboleggiano sì nella Scrittura i frutti dello Spirito, ma con un rapporto che non è solo esteriore: la salvezza – quella realtà cui destina lo Spirito – è anche poter mangiare il proprio pane, nella giustizia e nella pace, su una terra buona.

Tale istanza di complessità della lettura vale a maggior ragione per il Cantico dei cantici: parla certo di Dio, ma lo fa quasi senza nominarlo e nominando invece l’amore umano, in tutta la sua fisicità. Un canto che testimonia la forza di un amore grande come il cosmo, che tutto attraversa, narrando la passione tra due persone concrete, due giovani innamorati.

Il senso profondo dell’intera Scrittura – la misericordia travolgente del Creatore per ogni vivente – viene affidato qui al linguaggio dei sensi dei due amanti: perché averne paura? Perché non accogliere l’intreccio dei due livelli di lettura? Anche questo forse ci dice qualcosa di Dio.

E perché aver paura – come fanno alcuni dei critici più feroci – della varietà di forme d’amore narrate nella Bibbia? Ricordiamo che essa parla anche del rapporto tra Davide e Giònata, caro «più che amor di donna» (2Sam 1,26), del bacio che essi si scambiano (1Sam 20,41), del «grande affetto» che il secondo prova per il primo (1Sam 19,1), di Gionata che «amava come se stesso» Davide (1Sam 18,1)?

Può spiacere che tali passi non corrispondano al sentire morale di alcuni, ma non è un motivo per negarne l’esistenza e la complessità...

Accogliere l’ambivalenza e illuminarla

Sapremo tornare ad apprendere la lettura della Bibbia in tutta la sua complessità polisemica, in tutta la varietà di esperienze di salvezza che essa ci presenta? Se Benigni ci orientasse in questo senso, il grazie che gli dobbiamo sarebbe ancora più grande.

Lo sarebbe in modo particolare da parte di chi si occupa di etica, di chi proprio alla concretezza di quotidiani umanissimi comportamenti rivolge la propria attenzione; soprattutto da parte di chi lo fa indirizzandosi alla Scrittura per cercare luce nell’indagare l’ambivalente contraddittorietà dell’umano – talvolta oscura, talvolta così luminosa.

Noi eticisti, talvolta ritenuti freddi custodi della legge, sappiamo bene che il Cantico è un grande testo; che – come diceva Benigni – davvero «è un dono che dopo 2400 anni queste parole di suprema bellezza possano risuonare nelle nostre labbra e volare, posarsi sui nostri corpi, sui cuori e sull’anima». Grazie, Roberto.

 

Simone Morandini è coordinatore del progetto «Etica, teologia, filosofia» della Fondazione Lanza e insegna all’Istituto di studi ecumenici San Bernardino di Venezia; è coordinatore del blog Moralia.

Commenti

  • 09/03/2020 Paolo

    Non sono in grado di leggere il testo ebraico, ho riletto però varie traduzioni, anche di ebrei, e in nessuna ho trovato alcune delle espressioni usate da Benigni. Per il resto sono d'accordo con quanto lei dice.

  • 13/02/2020 Adalberto

    Grazie a te per quello che hai detto, è quello che io penso e credo. Grazie a Dio che ci fa dono di persone come te.

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