m
Moralia Blog

Il corpo di Cristo che ci è rimasto: i poveri

Dopo l’epidemia di COVID-19 che cosa sarà di noi? Della fede e della speranza? Si comincia a cercare risposte, papa Francesco se lo chiede ogni giorno e chiede ai suoi collaboratori di aiutarlo a capire.

La notte dell’emergenza

Alcuni punti fermi: stiamo ancora vivendo il tempo dell’emergenza, trovare in questo tempo le costanti che ci permettono di vedere il futuro è un azzardo, perché l’emergenza non può diventare la norma, diversamente facciamo solo una profezia auto-avverante, e non è una buona idea. Durante la notte è quasi impossibile fare discernimento, si rischia di scambiare per fantasma Gesù stesso.

È poi del tutto evidente che la tecnologia ci ha tradito. Non ha previsto nulla di quanto accade, non ci aiuta per ora a risolvere i problemi, la sicumera tecnologica e il possesso del creato sono andati in briciole in 100 giorni. Si rivela come la sapienza della Genesi continua a essere attuale: aggrapparsi all’albero della conoscenza non ci mette al riparo dal nostro peccato, al contrario lo genera. La pandemia lo mette sotto i nostri occhi ogni giorno, ogni volta che un vigile multa una persona che è in giro e non dovrebbe esserci, pur sapendolo benissimo. La struttura di peccato che ci abita è più forte dell’evidenza di qualunque verità.

La carità che salva

Che cosa ne sarà della fede e della speranza? Sarà la carità a salvarle, l’unica che rimane per sempre. La frase secondo la quale i poveri ci debbono essere maestri, Leitmotif del pontificato attuale, è la chiave di questa volta. La pandemia ha spazzato via l’elemento portante della nostra struttura personalistica: la prossimità. La prossemica è diventata tossemica.

E con essa sparisce anche la nostra vita sacramentale. La liturgodemia digitale mi pare lo dimostri. Siamo in affanno liturgico. Qualcuno propone di fare passi arditi in avanti esplorando l’infosfera con nuovi occhi. Non è necessario, anzi penso sia scorretto. L’immateriale non ha che rappresentazioni della corporeità, non la sostituisce. Nell’infosfera vivono informazioni, saperi, sembianti, ma non corpi, e la risurrezione finale dei corpi ci ribadisce che non c’è salvezza senza corporeità. Nel digitale corre la parola, e ciò è bene, è utile, è importante. Ma non basta. Necessario ma non sufficiente.

La soluzione è altrove. Gesù stesso ci indica la via: «I poveri infatti li avete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avete sempre» (Mt 14,8). Ci siamo: pensavamo di avere Gesù per sempre, di averlo in pugno nei nostri tabernacoli e nelle nostre eucaristie, il coronavirus ce l’ha portato via, l’ha portato via dal popolo lasciandolo solo al resto sacerdotale. Non abbiamo più il corpo fondamentale, il Prossimo in ragione del quale è possibile ogni prossimità. La fonte e il culmine della nostra vita.

Anche qui fughe in avanti o indietro per recuperarlo, stracciando il Vaticano II e recuperando eremitaggi e teologie annesse. Anziché scomporci, pensando che i nostri 100 giorni siano più lunghi di quei mille anni che agli occhi del Signore sono come il giorno di ieri che è passato, è sufficiente, già ora, guardare al corpo di Cristo che ancora ci è rimasto, quello che non ci sarà mai tolto: i poveri. Quelli ci sono rimasti, anzi aumentano e bussano alla porta, anche a quella più serrata delle nostre chiese vuote. Loro ci restituiscono la prossimità, ci impongono di ritrovarla, accettarla, sconfiggerne la paura. Loro possono essere regola per pensare il nostro futuro, mettendo insieme fede e vita secondo verità.

L’ambivalenza dell’infosfera

Siamo nel mondo, rimaniamo dell’altro mondo e non di questo. Siamo chiamati a incarnarci in questa cultura, per trasfigurarla dal di dentro, non a farci modellare da essa perdendo tutto per un piatto di lenticchie che sfami il nostro bisogno eucaristico.

Declino il punto rispetto a un aspetto della cultura digitale: l’infosfera non è per tutti e non è di tutti. Il digitale è un ambiente, non è un luogo. Come ogni ambiente ha un codice d’ingresso, il digitale che oggi frequentiamo è un luogo esclusivo di cui non siamo proprietari ma semplici utenti, e utenti selezionati e soprattutto selezionabili. L’idea di farne uno spazio sacro semplicemente esclude i poveri. Possiamo pensare come cattolica una liturgia che escluda i poveri? Il cristianesimo non può avere codici, è l’eresia gnostica. L’unico codice ammissibile è il nostro DNA, quello che Cristo ha scelto di assumere facendone un codice di salvezza.

 

Luca Peyron è presbitero della diocesi di Torino, coordinatore del Servizio per l’apostolato digitale, docente di teologia all’Università cattolica di Milano e di Spiritualità dell’innovazione all’Università degli studi di Torino. Ha scritto Incarnazione digitale (Elledici 2019).

Lascia un commento

{{resultMessage}}