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Moralia Blog

Il filosofo, il teologo e il codice genetico dell’etica

«I problemi fondamentali dell’etica (...) non troveranno una risposta fino a quando non sapremo di più intorno a quella componente del significato degli enunciati che distingue un imperativo dal corrispondente indicativo».

«La correlazione tra indicativo storico-soteriologico e imperativo etico è centrale in tutta la rivelazione biblica e si afferma con chiarezza in punti nevralgici dei due Testamenti, segno della consapevole riflessione che gli agiografi hanno sviluppato sull’agire morale».

Un quadro, un particolare

I due pensieri in sinossi qui sopra sono rinvenibili il primo nella prefazione alla traduzione italiana dell’opera The language of morals di Richard Mervyn Hare, filosofo di Cambridge scomparso nel 2002, il secondo nell’opera Scegliere la vita. Fondamenti biblici della teologia morale di Luigi Di Pinto, teologo della Facoltà teologica dell’Italia meridionale, pubblicata postuma quest’anno. Essi formano un quadretto che ci può aiutare a capire molte cose dell’etica (filosofica) e della teologia (morale).

Il dittico che formano sembra avere un particolare: il costrutto indicativo-imperativo del quale sono convinto sia come il cappello da cui un mago, se è bravo, può cavare ogni genere di oggetti senza che si capisca dove stia il trucco; ma può anche essere come un buco da cui non si riesce a cavare nulla.

Un gioco di prestigio, una prestigiosa realtà

Che cosa trasforma un cappello magico in un buco vuoto e viceversa? Il Filosofo e il Teologo sembrano riconoscere l’esistenza di modi diversi di dire, e sulla base di questo riconoscimento essi appuntano la differenza: potremmo dire che tale esistenza (di modi di dire) fa la differenza tra indicativo e imperativo, consistente nell’uso che se ne fa di uno stesso enunciato.

In termini ancora più diretti, nel modo di dire qualcosa a qualcuno noi possiamo sempre rispondere a una domanda relativa a «che cosa sia accaduto» oppure a una domanda relativa al «che cosa fare perché qualcosa accada».

La distinzione tra indicativo e imperativo, fondamentalmente, sottolinea che gli uomini parlano per dire come stanno le cose, ma non solo; gli uomini parlano, anche, per dire di fare qualcosa. Siamo veramente di fronte al cappello magico dal quale si tirano fuori cose che non si pensava potessero essere contenute in esso.

L’imperativo sembra non potere essere cavato dal fondo non profondo del cappello, eppure come se il fondo del cappello fosse un abisso ecco che il linguaggio umano è capace di una logica che non si esprime soltanto secondo un registro del «dire qualcosa».

Niente imperativo, niente etica

Ed è una logica autonoma la cui esistenza fa la differenza tra le molte teorie etiche esistenti in ambito filosofico, perché tutte le volte che questa differenza di registro non è stata o non è percepita, il cappello magico diventa come un buco vuoto.

Fuori metafora: alcune teorie, che volevano essere etiche, hanno remato contro l’etica perché non hanno riconosciuto la sua logica ovvero la natura autonoma dell’imperativo.

Un esempio può rischiarare: «non rubare» è un imperativo. Che significato dargli? Se significasse «io desidero che tu non rubi», oppure «io non approvo che tu rubi», non sarebbe più un imperativo ovvero «io dico che tu non devi rubare» (un dire di fare qualcosa), ma un manifestare un mio pensiero o un mio sentimento (un dire come stanno le cose, in questo caso le cose dentro la mia testa e il mio cuore) ovvero un indicativo.

Tali teorie, nelle quali si è ricondotto, identificandolo, l’imperativo all’indicativo si sono svuotate di etica. Ora: se tali teorie sono sempre più buchi vuoti tanto più se non considerano questa differenza logica tra indicativo e imperativo, ne segue che quest’ultimo è il DNA di ogni discorso etico. E per quanto e per come questo discorso si imposti non c’è niente che non sia già tutto in questo codice genetico.

Ciò si traduce nel fatto che un imperativo non discende da un indicativo (al massimo è il caso degli imperativi ipotetici), ma s’impone da se stesso (intuizione morale) e che, congiuntamente all’indicativo (conoscenza dei fatti), si trasforma in un giudizio morale fornendo ragioni.

Ritorniamo al quadro e ritroviamo la quadra

In ambito teologico, più che porre l’enfasi sull’esistenza della suddetta differenza logica, quindi sull’autonomia, si è piuttosto sempre messo l’accento sulla relazione fra indicativo e imperativo, risolvendola in un rapporto ora di deduzione, ora d’implicazione, ora di secondarietà (a seconda delle varie teologie morali) del secondo dal primo che costituisce il metro e il fondamento.

Se volessimo operare una trasposizione della differenza logica dall’ambito filosofico a quello teologico, diremmo che «il dire di Dio» comporta «il dire di fare qualcosa». Il posto che era dell’imperativo ora è passato all’indicativo.

Se il dire di Dio equivale al suo agire, che cosa resta di quella natura autonoma dell’imperativo? Potrei dirlo più crudamente: possiamo accettare o rintuzzare un giudizio morale a partire dall’agire di Dio senza incappare in un moral-positivismo teonomo?

Chi riconosce la natura autonoma dell’imperativo farà sovente notare che l’agire (anche di Dio) presuppone sempre delle ragioni; chi, allora, riconosce la correlazione tra l’indicativo e l’imperativo, deve farlo a scapito del secondo per il primo, convincendosi di aver trovato una specificità oppure sarebbe necessario qualche passo ulteriore per chiarire meglio la natura di questa specificità?

 

Pietro Cognato insegna Teologia morale e bioetica presso la Facoltà teologica di Sicilia, l’Istituto di studi bioetici S. Privitera e la Facoltà di servizio sociale – LUMSA. Tra le sue opere Fede e morale tra tradizione e innovazione. Il rinnovamento della teologia morale (2012); Etica teologica. Persone e problemi morali nella cultura contemporanea (2015)Ha curato inoltre diverse voci del Nuovo dizionario di teologia morale (2019).

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