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La giustizia riparativa e l’etica

La cronaca degli ultimi giorni ha portato alla ribalta la «giustizia riparativa», con la richiesta di Cesare Battisti, in carcere dal 2019 dopo quasi quattro decenni di latitanza in Francia e in America Latina, di accedere a un programma di questo tipo. Ma di cosa si tratta?

La disciplina organica della giustizia riparativa è entrata in vigore nel nostro ordinamento nazionale grazie alla legge 199 del 30 dicembre 2022.

Notiamo subito che la vigente disciplina italiana risulta perfettamente allineata alle indicazioni sovranazionali e, addirittura, le supera positivamente.

Nel comporre la normativa il legislatore ha effettuato alcune scelte di campo.

Immediatamente significativo è l’approccio alla giustizia riparativa stessa. Si tratta di un approccio selettivo verso uno generalista per quanto attiene il novero dei reati per i quali si può accedere ai programmi di giustizia ripativa.

Inoltre l’inedita centralità della vittima diventa il volano per un approccio inclusivo e aperto – come auspica il Consiglio d’Europa nella Raccomandazione del Comitato dei ministri CM/Rec(2018)8 – affinché proprio nessuna vittima venga dimenticata, privata della possibilità dell’ascolto, dello storytelling e della ricezioni di azioni riparative. 

«Fare riparazione» a qualcuno

L’essenza del «fare riparazione a qualcuno» consiste nel passare dal mancato riconoscimento alla consapevolezza di chi si ha di fronte.

Questo dinamismo, che afferisce all’interiorità della persona, fa leva, in senso attivo, su almeno due dimensioni fondamentali della vita umana: la dignità della persona e la memoria.

Dignità: riparare alla vittima significa ritenerla degna di essere riconosciuta in quanto tale, toglierla dall’anonimato. Se la giustizia penale fatica a restituire dignità e riconoscimento alla persona offesa, per la giustizia riparativa questo obiettivo è essenziale nell’ontologia e primario nella cronologia.

Memoria: l’offesa penetra nella memoria. Il rinnovarsi del dolore attraverso il ricordo dell’offesa può provocare quel meccanismo, pericoloso, del risentimento al quale la riparazione cerca di porre rimedio, attraverso la ricerca di quel che Paul Ricoeur ha definito l’oblio attivo, cioè la capacità di lasciare alle spalle il proprio passato senza risentirne le conseguenze dannose (Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, Il Mulino, Bologna 2004).

Riconoscere l’altro come altro

Il riconoscimento reciproco e la conseguente relazione riconoscente è la prima ed effettiva forma di rapporto nella quale due o più soggettività possono convivere, in tutta la grandezza delle possibilità dischiuse dal loro esserci.

Ogni persona, in quanto persona, necessita di essere riconosciuta come un orizzonte di senso non valicabile, intenzionalmente infinito. Nel riconoscere l’altro come altro – qui si ritrova, in ultima analisi, anche la domanda sull’identità del volto di Dio – si scopre la vera ragion d’essere dell’etica, e anche l’essere della sua ragione.  

La giustizia riparativa quale prossimità etico-dialogica

La Direttiva 29/2012/UE, all’art. 2.1 d), qualifica la giustizia riparativa come «qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale».

Disporsi come unità di soggetto agente, liberamente e attivamente, per trasformare i conflitti, emergenti da sensazioni di ingiustizia, significa attivarsi per il riconoscimento reciproco, quale possibilità di ammettere da un lato il male fatto a un proprio simile, e dall’altro abbandonare propositi negativi di vendetta. 

L’umanità comprende la serietà del riconoscimento reciproco e lo definisce nella «regola d’oro» («Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te»; «Ama il prossimo tuo come te stesso», nella versione positiva scelta dalla tradizione cristiana).

Il «viaggio» interiore del riconoscimento si racconta nell’olisticità della vita dell’essere umano, e incoraggia, facilitandola, l’attivazione delle modalità relazionali. Un «viaggio» manifesto nel pensare e agire narrativo, avviato da chiunque lo desideri, proprio perché appartiene alla struttura dialogica dell’essere umano. Diviene «etico» quando disposto e accettato consapevolmente.

 

Giovanni Angelo Lodigiani è docente stabile di Etica teologica presso l’ISSR Sant’Agostino (Crema, Cremona, Lodi, Pavia, Vigevano) e di Giustizia riparativa e mediazione penale presso l’Università dell’Insubria Como-Varese.

Commenti

  • 06/01/2024 Giuliana Crevani

    L'articolo è meraviglioso, esprime la concezione di giustizia molto elevata che innalzerebbe il livello di vita umana, dignità e memoria. Auspichiamo la continuazione di questo raffinato lavoro supportato da studi e competenza notevoli affinché si crei una sensibilità umana adeguatamente ricettiva.

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